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Troppe tragedie si consumano all’ombra delle separazioni

 

Vite spezzate: non solo condanna

di Ubaldo Valentini *

 

La stampa riporta con enfasi le tragedie familiari che si consumano a seguito di separazioni subite o imposte cioè quando uno dei due partner viene estromesso dalla vita dell’altro e/o dei propri figli.

Gli omicidi-suicidi non sono mai giustificati.  Stiamo attenti, però, a non strumentalizzare tragedie familiari che si spiegano solo calandoci umilmente nel vissuto di vite spezzate da drammi spesso più grandi dei protagonisti. La piaga del femminicidio non sempre è sufficiente a spiegare l’assurdità di questi sconvolgenti eventi ed è dovere di tutti, per una retta informazione e comprensione dei fatti,  andare oltre la scontata riprovazione.

Gli amori si spezzano, ma spesso con essi, si  vuole spazzar via con un colpo di spugna progetti, speranze, illusioni, delusioni, cioè sentimenti traditi che condizionano il nostro agire. Togliere la vita agli altri e soprattutto ai propri figli è un gesto folle, nessuno lo nega, ma occorre vedere se  certi accadimenti avvengano anche per l’indifferenza delle istituzioni e della società consumistica che non si ferma nemmeno dinnanzi ai sentimenti e ai drammi personali, alla solitudine distruttiva e all’emarginazione in cui certe persone vengono a trovarsi nell’indifferenza del mondo che li circonda.

In tutti questi anni di attività ho incontrato tantissime persone lacerate dal dolore causato loro dal partner che improvvisamente ha misconosciuto progetti affettivi e familiari costruiti durante il fidanzamento e riaffermati dalla convivenza, facendoli sentire esseri inutili. Si mettono in moto meccanismi delicatissimi e devastanti, talvolta ingestibili, che portano l’individuo rifiutato a chiudersi in sé stesso, a diffidare di tutto e di tutti perché gli crolla un mondo a cui aveva dato tutto se stesso e in cui credeva ciecamente. Il partner, comunicandogli, talvolta con sarcastica freddezza,  che l’amore è finito e che quindi deve mettersi in disparte da subito - spesso rinunciando ai figli che però deve continuare a mantenere - non gli concede il tempo per poter discutere e confrontarsi sui tanti perché  suscitati da una siffatta decisione.

Non basta dire: “tutto è finito”, “non ti amo più”, “non provo più nulla per te”, “tu non mi rendi più felice”, “amo un altro o un’altra”, “tu devi sparire dalla mia vista”, “voglio rifarmi una vita”, “da anni aspettavo questo momento”, quando si dimentica che certi sentimenti costitutivi dell’esistenza di ciascuno e del vissuto quotidiano non si possono liquidare con semplici battute che, sovente, in molti casi sono anche oltraggiose.

 

L’amore può finire ma se ne parla e si concede alla controparte il tempo necessario per rielaborare una decisione unilaterale spesso inaspettata che porta al crollo di un mondo attorno al quale si era costruita una vita di relazione e di genitorialità con tanti sacrifici e con tante speranze. Sui sentimenti non si gioca e la facile condanna sociale non aiuta a crescere e a

garantire il rispetto di tutti pur nella innegabile libertà del cambiamento.

 

 

Avere la percezione del tradimento, del rifiuto e della fine di una progettualità d’amore, se non sorretti da forti basi culturali e ideologiche e da amicizie profonde, è devastante per tutti. Da qui la fondamentale esigenza che i sentimenti vengano rispettati e che i tempi della fine di un amore non possono essere contingentati da chi rompe il rapporto. Ogni relazione interpersonale e familiare ha tempi diversi per rielaborare, anche criticamente, la propria  storia e il proprio vissuto che nessuno, dall’esterno, può giudicare in modo sommario e perciò in termini di superficialità. La fine di un affetto è sempre problematica per tutti e non tutti reagiscono allo stesso modo, altrimenti vivremmo in una società perfetta e razionale. Ma tutti sappiamo che così non è.

A queste tragedie è quasi sempre legato il dramma del padre che l’altro genitore estromette dalla vita dei figli. Ma di questo poco si parla poiché l’informazione troppo spesso insegue gli indici di ascolto e preferisce affrontare tematiche “leggere”, salottiere che poi hanno sempre scarso riscontro nella realtà. Esiste scarsa propensione ad intervistare  genitori separati che non vedono i propri figli da mesi e anni e il cui ruolo genitoriale riconosciutogli dalle istituzioni è solo quello di genitore-bancomat: genitori che nessuno tutela nei tribunali e nella società e a cui l’intervistatore gli concede solo pochi secondi di tempo.

Sui separati speculano anche i politici e i parlamentari, i quali preferiscono propagandare separazioni e divorzi lampo che costano meno di una pizza, ma nessuno di loro affronta seriamente i tempi lunghi delle separazioni e dei divorzi giudiziali, soprattutto in presenza di figli minori; nessuno si sofferma sui drammi interiori e sulla disperazione di un infinito numero di padri che non vedono da tanto tempo i propri figli, che non hanno i soldi per essere tutelati nei tribunali  e che si vedono negati i propri inalienabili diritti alla genitorialità e alla paternità in specifico.

Estromettere un genitore (per la stragrande maggioranza il padre) dalla vita dei propri figli, umiliarlo e farlo sentire da loro inutile e rifiutato, quasi sempre su istigazione del genitore collocatario (che per la maggioranza dei giudici e degli operatori dei servizi sociali è intoccabile sotto tutti gli aspetti, anche quando non rispetta la legge) è un oltraggio alla dignità della persona, un rinnegare la società di appartenenza e, in fondo, un rinnegare la stessa umanità.  Le separazioni sono un business per i servizi sociali, per le cooperative sociali, per gli psicologi, per molti legali e per tutti coloro che lucrano su questa triste ed inaccettabile realtà nell’indifferenza della magistratura.

I tribunali scaricano le proprie responsabilità – nonostante il richiamo della Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo -  sui servizi sociali (numericamente insufficienti, troppo spesso di parte e non professionalmente preparati a tale incarico), sulle Ctu e sulla mediazione familiare come se non dare risposte al genitore perseguitato dall’altro e dalle istituzioni e a cui viene negato il naturale diritto alla paternità o maternità  non sia una palese violazione di un atto dovuto del magistrato. Nessun controllo viene fatto sull’operato e sui costi dei professionisti (e non sempre tali)  incaricati a determinare le modalità di permanenza dei figli con il genitore non collocatario. La maggioranza delle relazioni delle Ctu sono monotone e ripetitive divagazioni sul tema della genitorialità e rispecchiano le ideologie professate dall’estensore.

Non si riconosce mai l’esistenza della Pas (sindrome dell’alienazione genitoriale) perché ammetterla significherebbe scardinare i business economici e culturali che girono attorno alle separazioni e di cui nessuno ne parla, soprattutto nella sinistra che, assieme al mondo cattolico, è responsabile di questa devastazione della genitorialità. Se a tutto ciò si aggiunge la forte disuguaglianza di trattamento economico dei genitori, si comprende come per alcuni genitori non resta altro che rassegnarsi a subire questa ingiustizia o a ribellarsi. Ma come?

In alcuni casi, questi genitori umiliati, oltraggiati dalle istituzioni, prigionieri della solitudine e  della impotenza, rifiutati dai propri figli e dal mondo che li circonda, sopraffatti da una fragilità interiore indotta da altri, finiscono per distruggere l’esistenza propria, dei loro figli e di chi ritengono essere la causa più immediata del loro dramma.

Questi gesti non si giustificano, ma non basta una condanna “plateale e/o ideologica” occorre che ciascuno, quale membro della società di provenienza e dell’umanità,  si assuma le proprie responsabilità per tragedie che potevano e possono essere evitate e ciascuno venga chiamato a rispondere – senza sconti - delle proprie responsabilità istituzionali poiché la disuguaglianza e la prevaricazione sono sempre la negazione della persona umana.

Accanto a questi genitori che uccidono e si uccidono esistono tanti genitori che si tolgono la vita, talvolta con discrezionalità per non offendere i figli e che si danno fuoco perché si sentono inutili, di cui nessuno ne parla in modo approfondito.

Non compassione ma nemmeno indifferenza e fuga dalle proprie responsabilità sociali.

* presidente “Associazione Genitori Separati per la Tutela dei Minori”.

 

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