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Assegno Divorzile


Basta un tardivo colpo di spugna

sulle superficialità del passato?


avv. Francesco Valentini*

La legge n. 898 del 1970, all’art. 5 c. 6, recita che: “con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.

Stabilisce che, in presenza di richiesta di assegno divorzile, il tribunale, tenuto conto dei vari fattori elencati dal legislatore, deve valutare la mancanza di “mezzi adeguati” dell’ex coniuge richiedente l’assegno o, comunque, della sua impossibilità a “procurarseli per ragioni oggettive”.

La individuazione del parametro di riferimento per la determinazione dei “mezzi adeguati” e “le ragioni oggettive” ha dato adito a controversie dottrinali e giurisprudenziali tanto che la Cassazione, a sezioni unite, con le sentenze nn. 11490 e 11492 del 29 novembre 1990 ha sbrigativamente risolto il problema affermando che il parametro doveva essere individuato: “nel tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, o che poteva legittimamente e ragionevolmente fondarsi su aspettative maturate nel corso del matrimonio stesso, fissate al momento del divorzio”.

I tribunali si adeguarono a questo parametro senza tener conto che durante il matrimonio i due coniugi vivevano in una stessa famiglia e che, con la separazione-divorzio, i nuclei familiari da gestire erano divenuti due e che, pertanto, era impossibile garantire “il tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio”.

Il tenore di vita invece di garantire equità tra i due coniugi ha finito per penalizzare quasi sempre l’uomo, soprattutto quando con il suo reddito medio-basso doveva mantenere i figli, la ex-moglie, pagare il mutuo sulla casa dove abitavano i figli con la madre (spesso con indebita presenza dell’amante e/o convivente) e sostenere anche il canone di affitto per una abitazione per sé e per i figli quando erano con lui.

Non va dimenticato, inoltre, che spesso il coniuge richiedente l’assegno divorzile, la moglie, risulta disoccupata mentre in realtà lavora a nero e/o se in costanza di matrimonio si è sistematicamente rifiutata di lavorare e contribuire al mantenimento della famiglia.

Circostanze queste non sempre dovutamente considerate ed indagate per valutare se, in base alla L. 898/70, ne esistevano i presupposti e, se dovuto, per quantificare l’assegno stesso.

Con la sentenza n. 11504 del 10 maggio 2017, sez. I civ., la Suprema di Cassazione ha fatto chiarezza su questo delicato aspetto del divorzio ed ha sgomberato il terreno da presupposti indebiti e non previsti dal codice civile.

 

La suprema corte sostiene che “con la sentenza di divorzio il rapporto matrimoniale si estingue sul piano non solo personale ma anche economico-patrimoniale – a differenza di quanto accade con la separazione personale, che lascia in vigore, seppure in forma attenuata, gli obblighi coniugali di cui all’art. 143 cod. civ. -, sicché ogni riferimento a tale rapporto finisce illegittimamente con il ripristinarlo - sia pure limitatamente alla dimensione economica del “tenore di vita matrimoniale” ivi condotto – in una indebita prospettiva, per così dire, di “ultrattività” del vincolo matrimoniale…

 

… il Collegio ritiene che i principali “indici….. per accertare, nella fase di giudizio sull’an debeatur, la sussistenza, o no, dell'”indipendenza economica” dell’ex coniuge richiedente l’assegno di divorzio – e, quindi, l'”adeguatezza”, o no, dei «mezzi», nonché la possibilità, o no «per ragioni oggettive», dello stesso di procurarseli -possono essere così individuati:

1) il possesso di redditi di qualsiasi specie; 2) il possesso di cespiti patrimoniali mobiliari ed immobiliari, tenuto conto di tutti gli oneri lato sensu “imposti” e del costo della vita nel luogo di residenza («dimora abituale»: art. 43, secondo comma, cod. civ.) della persona che richiede l’assegno; 3) le capacità e le possibilità effettive di lavoro personale, in relazione alla salute, all’età, al sesso ed al mercato del lavoro dipendente o autonomo; 4) la stabile disponibilità di una casa di abitazione”.

La prova della non “indipendenza economica” dell’ex coniuge spetta allo stesso che dovrà “allegare, dedurre e dimostrare di “non avere mezzi adeguati” e di “non poterseli procurare per ragioni oggettive”.

La sentenza degli ermellini ha suscitato entusiasmo in tutti coloro che non vogliono più versare l’assegno divorzile alla ex sia perché ritenuto a priori non dovuto sia perché le loro condizioni economiche non glielo permettono.

Il facile entusiasmo, però, deve fare i conti con il principio del libero convincimento dei giudici, cioè la loro inappellabile discrezionalità, che con inspiegabile giustificazione li porta, quasi come prassi normale, a rigettare tutti i ricorsi e i reclami.

Secondo la Cassazione il giudice e/o il collegio giudicante, invece dovrebbe leggere attentamente i singoli fascicoli, approfondire le ragioni dei due coniugi e poi esprimere il proprio parere.

I legali, sovente, alimentano questo entusiasmo generale e invitano i clienti, siano essi vecchi che nuovi, a chiedere le modifiche del divorzio con l’abolizione dell’assegno di mantenimento. Ogni ricorso ha un costo sia di contributo unificato che di parcella e in molti casi, poi, risulta anche inopportuno.

E’ importante, al contrario, che ogni singolo ricorso sia attentamente ponderato per non creare un eventuale danno economico al ricorrente (cioè di colui che richiede al Tribunale di non versare più l’assegno divorzile) e per non indebitamente “ingolfare” i tribunali con procedimenti inutili. Tentare la carta della fortuna non dovrebbe far parte della prassi legale.

Non è nemmeno giusto, però, che non si tenga conto del contributo dato dalla moglie alla gestione della famiglia e all’incremento dei guadagni del marito sia a livello di progressione di carriera nel lavoro che nell’attività imprenditoriale. Una donna che ha speso la sua vita per la famiglia non può essere “scaricata” dal marito “benestante” in una età in cui difficilmente troverebbe una propria autonomia economica. Anche in questo caso, comunque, si dovrà tener conto che il marito deve far fronte a una diversa situazione familiare: due case, due famiglie, ecc.

Diverso, invece, è il caso del marito che sia per il suo basso reddito che per gli obblighi economici del passato (assegno mantenimento ai figli, mutuo sulla casa dove vivono la ex-moglie e figli, canone di locazione per un monolocale per sé e per quando ha i figli con lui, spese straordinarie dei figli). Non degna di considerazione è la richiesta proveniente da una moglie responsabile morale, e non solo, della fine del matrimonio.

Il tribunale di Milano il 25.05.2017 ha ritenuto che sia autosufficiente e non abbia diritto all’assegno divorzile il coniuge che percepisce uno stipendio superiore ai mille euro al mese, prendendo come parametro di misurazione del reddito, l’indice previsto per godere del gratuito patrocinio, ossia €. 11.528,41 lordi all’anno.

In definitiva, l’autosufficienza economica del coniuge è data da un reddito di lavoro, dalla titolarità di immobili potenzialmente produttivi di reddito, da beni mobili, come azioni, titoli, quote in società, ecc., dagli aiuti economici dati dai genitori e, infine, dall’assegnazione della casa coniugale.

Nei procedimenti di divorzio in corso, invece, i legali devono smascherare la indebita richiesta di assegno divorzile da parte della moglie e far valere le ragioni del marito, anche dinnanzi a giudici poco inclini ad analizzare in modo approfondito caso per caso.

Per i procedimenti chiusi, prima di ricorrere al ricorso, sarebbe bene vincolare l’incarico al risultato del ricorso stesso, cioè contrattare i costi e sottoscriverli cliente ed avvocato. Le parole e l’ars persuadendi non fanno farina e le parcelle ballerine non tutelano affatto il cliente. Il confronto delle tariffe è una ottima prassi e il susseguente contratto sottoscritto garantisce il cliente e il legale.

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