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Centri antiviolenza, i minori, la legge e le istituzioni


Avv. Francesco Valentini

 

Quando si parla di violenze nell’ambito della famiglia, stampa, televisione e cultura di genere fanno in gara a sbattere in prima pagina “il mostro” e il rumore, attraverso le solite manifestazioni pilotate arriva fino al Parlamento. Qui la debolezza di genere prende il posto della discussione o dell’analisi più seriamente approfondita, per concludersi in fretta con un provvedimento più significativo contro il " maschio. Casualmente, si fa per dire, la strategia di genere ne approfitta nei periodi più propizi delle feste natalizie o di quelle estive, in pieno ferragosto (basta leggere le date di approvazione), quando i parlamentari uomini sono già con la mente nei meritati luoghi di riposo. Meno male che la rivolta culturale popolare con le elezioni del 4 marzo ha posto fine ad un sistema sconsiderato, confusionario e lontano dai veri problemi del Paese.

La violenza è sicuramente la peggiore espressione dell’essere umano. Essa non ha una connotazione genetica. Si può sviluppare in qualsiasi persona e trova la sua origine in fattori a cui la scienza ancora non ha saputo dare la esatta collocazione.

La violenza si manifesta in diversi modi e con modalità diverse, da quella fisica a quella più sottile di natura psicologica. Il legislatore commette un gravissimo errore allorquando la definisce come fenomeno solo contro la donna, trascurando che questa avviene anche da parte della donna contro l’uomo. Quando è l’uomo a fare violenza, questa si fa ricadere in normative e trattamenti speciali; quando invece è la donna a usare violenza all’uomo il fatto si tratta con la legge del codice penale. Nel primo caso si parla di femminicidio, nel secondo caso di semplice abuso, in qualche caso aggravato. Eppure i dati ministeriali, a cui il legislatore dovrebbe attingere, prima di legiferare, contraddicono le decisioni.

 

I media sull’onda del clamore di occasione allarmano l’opinione pubblica quando è l’uomo a fare violenza, ma non presta la dovuta attenzione quando un padre si toglie la vita per una ingiusta decisione del tribunale di dovere attendere mesi ed anni per incontrare il figlio, o di attendere il momento dopo mesi ed anni dopo che è maturata la manipolazione. Di fronte a questi casi, e ce ne sono molti, Tribunali, C.S.M e Ministero della Giustizia, tacciono, anzi omettono di andare a cercare la causa dell’accaduto. Per timore di venire a conoscenza di una verità carica di responsabilità personali? Questa Verità comunque arieggia di vergognosa ingiustizia negli androni e nelle aule dei tribunali.

Il grave problema non può più essere tollerato ulteriormente. Il cambiamento politico impone al nuovo Parlamento di affrontarlo con determinazione e rivedere tutta la questione della famiglia, sfrondata della normativa vendicativa e di ripicca, ma soprattutto rivista con una cultura giudiziaria avulsa da pregiudizi personali e ancorata ai principi e valori della Costituzione.

Istituzioni, Organi dello Stato e degli Enti territoriali esercitano poteri e competenze in armonia con le leggi e i principi di fondamentale rispetto della famiglia. Non si può tutelare un cittadino contro un altro cittadino, ma entrambi nella visione della comunità unita negli stessi principi.

Il Dipartimento delle Pari Opportunità, istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nel 1997, nacque come istituzione di equilibrio sia per l’uomo che per la donna. Poi una precisa politica di genere ne ha modificato la struttura pilotandola verso il sistema dell’assistenza clientelare delle sole donne.

La violenza è stata l’occasione per una specifica politica di riordinare tutto il sistema con la nascita di centri organizzati, dal recupero al rifugio, alla difesa legale, alla formazione, alla collocazione. Insomma ad un sistema che costa milioni di euro, gestiti a livello regionale e locale.

Da alcuni anni i finanziamenti pubblici sono stati triplicati e finalizzati all’incremento e potenziamento di centri, e case rifugio, riservate esclusivamente alle donne e ai figli, sottratti ai padri con subdoli meccanismi avallati dai servizi politici sociali locali e dai tribunali, in assenza di controlli contabili sulla spesa in cui vengono contabilizzate anche quelle di donne le cui denunce risultano accertate come false. La spesa comprende tutto, quella per rifugio, mantenimento, legali, convegni, etc.. etc.

E’ doveroso fare chiarezza anche sulle tante tipizzazioni di violenza sui minori che quasi sempre si riducono alla violenza sessuale e solo raramente viene presa in considerazione quella fisica. Se un uomo, vittima di violenza da parte di una donna, si rivolge a questi centri, non solo non viene mai preso in considerazione ma addirittura umiliato. Lo stesso accade se un padre vi ricorre per segnalare violenza subita dai figli dalla madre. Eppure nei contributi pubblici vi sono anche soldi delle dichiarazioni di redditi di quel padre.

I minori, sono intrappolati in un sistema contorto, ma condiviso, di gestione non vigilato in cui affondano le mani diversi soggetti. Bilanci e rendiconti vengono approvati dagli stessi soggetti che hanno messo in piedi il sistema.

E la corte dei Conti? Tutti tacciono, e tutti sono concorrenti e coinvolti. Il controllo è previsto sia nei decreti ministeriali di assegnazione dei contributi, che nelle determinazioni regionali e quelle locali. Le contabilità passano attraverso percorsi condivisi e consumati. I reati secondo la legge sul femminicidio ritorna assecondata dalla politica dell’opportunità di genere, perché tutti, chi più e chi meno, traggono utile nel riparto del contributo pubblico.

L’unica vittima di questa violenza politica è il minore che sin dalla nascita, si vede sottratto al suo mondo di dignità come persona, strattonato da una parte all’altra, allontanato dal genitore, che forse più ama. La forza del giudice, non la legge, fa la sua giustizia, collocandolo presso un solo genitore o peggio ancora in una casa rifugio gestita da qualche amico o parente, a costi proibitivi. Mentre sarebbe meno dispendioso collocarlo presso nonni o altri parenti che li hanno richiesti. Ancora più grave ed insopportabile è la notizia che alcuni minori all’insaputa del padre, siano stati collocati presso strutture, a distanza di una migliaio di chilometri dal luogo di residenza, per strategico desiderio della madre. E grave risulta la decisione, oltremodo ingiustificata, in seguito alla notizia che i minori sono stati tolti da quella struttura, chiusa per sospettose infiltrazioni, e ricollocati in altra struttura, dichiarata segreta. Eppure questa vicenda è stata gestita da una struttura pubblica presso il Ministero che vanta un telefono di rinomato colore. Dobbiamo sospettare o è vera la notizia che in questo “mare magnum” si sono infiltrate anche organizzazioni criminali?

Nel mondo della famiglia non devono trovare posto le camuffate violenze sui minori che vanno da quella familiare, giudiziale, a quella fisica, psicologica, sociale, perché ogni provvedimento che allontana i figli dai genitori, è decisione contro il benessere dei figli e contro la famiglia e la società.

La violenza psicologica, fortemente presente nelle separazioni conflittuali, non viene mai presa in dovuta considerazione sia dai servizi sociali che dai tribunali. Le Ctu, nella maggioranza dei casi, la ignorano e quasi mai ne analizzano i danni irreversibili che provoca nella formazione della personalità del minore. Si rivolta il problema sulla conflittualità dei genitori, escludendo che questa è causata dal genitore “forte”. La scienza ha provato che il genitore che vive col figlio è il primo soggetto che lo condiziona. Questo aspetto volutamente non viene mai analizzato.

Cardine della questione, non superata da nessuna scienza psicologica e giudiziaria, è e resta l’istituto della b genitorialità. Il tribunale, chiamato a provvedere sull’affido dei figli, non può delegare la decisione ai servizi sociali, come appendice sostitutiva. La Corte Edu, ha costantemente affermato che i Servizi sociali possono riferire ma non suggerire provvedimenti di “esclusiva” competenza del giudice.

Da qui nasce la necessità della revisione istituzionale dei centri, riportandoli nella sfera di natura privata, con sostegno e gestione di fondi propri, per attività anche solo di genere. Allo stesso modo vanno considerati centri di genere maschile. Il danaro pubblico, rispetta regole e destinazione pubbliche ed è soggetto a vigilanza e controllo pubblico. Ma soprattutto non può essere impegnato soltanto per cittadini di genere. E violazione del principio costituzionale che i cittadini sono tutti uguali per legge e che l’uguaglianza assurge a principio inviolabile dei diritti, dei doveri e della dignità.

Nell’esercizio del diritto di difesa e del contraddittorio risulta molto difficile parlare della violenza sui minori e delle discriminazioni a cui sono sottoposti dal genitore collocatario/affidatario e da tutto il suo contesto parentale e familiare. Nelle ordinanze, nei decreti e nelle sentenze di affido dei minori raramente si trovano riferimenti alle violenze subite dai minori, estromessi dalla vita dell’altro genitore per disapplicazione della legge sull’affido condiviso.

I diritti negati ai minori passano quasi sempre per i centri antiviolenza e per i servizi sociali a cui si appoggia il variegato mondo delle case protette, case-rifugio e case famiglia. Un mondo che assorbe milioni di finanziamenti pubblici. Per un minore rifugiato si pagano diarie giornaliere che superano anche 150 euro, e superano di molto i duecento se accompagnati dalla madre. E mancano i controlli. Eppure sono soldi pubblici, un mare di soldi pubblici.

Con questi soldi si potrebbero aiutare le famiglie originarie a mantenerli e ad assicurare una crescita sana e serena, in ambiente in cui la tutela è più garantita.

 

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