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Indurre i figli a rifiutare il padre è reato, sempre!
Nel reato di "maltrattamenti in famiglia" e “sottrazione di minorenni” (artt. 572 e 574 c.p.) rientra anche la pratica, divenuta oggi ordinaria e intollerabile, del genitore collocatario/affidatario, che, approfittando della sua posizione genitoriale egemone, induce il figlio a rifiutare l’altro genitore, quasi sempre il padre. Una consuetudine, questa, che provoca danni psicologici devastanti sul
minore e il codice penale, se il comportamento genitoriale è intenzionale e reiterato – e lo è quasi sempre, perché indotto (c.d. ex plagio) dal genitore convivente con il figlio - prevede per lui drastiche conseguenze penali.
Secondo la Cassazione, il reato c’è ogni qualvolta che questo atteggiamento procura una frustrazione dei diritti altrui ed è finalizzata “ad ostacolare ed impedire di fatto l’esercizio del diritto di visita e di frequentazione della prole” (Cassazione penale, sez. II, sent. n. 47882/2023 del 30.11.2023). La sentenza, inoltre, specifica che questo atteggiamento rientra anche nella fattispecie del reato di mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice. La legge va integralmente applicata e non si può ricorrere alla non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 388 e 131 bis c.p.).
E’ un reato indurre i figli a rifiutare il padre, da sempre, ma solo raramente - diciamo pure quasi mai - è perquisito dall’autorità giudiziaria, stroncando così un fenomeno che va sempre più diffondendosi in Italia, annullando l’inalienabile diritto dei minori alla bigenitorialità e il diritto dei padri alla cogenitorialità. Il reato è quasi sempre commesso dalla madre collocataria/affidataria, poiché il 94% dei figli vengono – arbitrariamente e inspiegabilmente - collocati presso la madre, che, sovente, sfrutta il suo ruolo egemone per ricavarne benefici economici o per soddisfare le proprie vendette verso l’altro genitore. Un genitore non può ostacolare il rapporto del figlio con l'altro genitore (impedire le visite, vietare o disturbare le telefonate, screditare l'altro genitore per farlo da lui rifiutare o manipolarlo per far apparire il rifiuto come una scelta del minore) e, se lo fa, si tratta di alienazione parentale e questo comportamento, dannoso per il minore, dovrà avere, giudice volendo, conseguenze legali anche pesanti, quali la modifica delle condizioni di affidamento per garantire al figlio un rapporto equilibrato con entrambi i genitori; quando il genitore viola i doveri genitoriali o abusa dei propri poteri, il giudice può pronunciare la decadenza dalla responsabilità genitoriale; condannarlo a risarcire il danno al figlio e all'ex coniuge; perseguirlo per il reato di sottrazione di minore, soprattutto se il genitore cambia la residenza del minore, senza il consenso dell'altro o dell’autorizzazione del giudice.
La c.d. alienazione parentale esiste e si riscontra ogni giorno nelle aule dei tribunali e causa ansia, depressione, bassa autostima e difficoltà relazionali nei minori, che potrebbero sviluppare una pericolosa avversione o paura nei confronti del padre, facendo venire meno il loro diritto a un rapporto equilibrato con entrambi i genitori.
Il nostro codice civile, proprio perché il legislatore era consapevole delle sue conseguenze devastanti sul minore “alienato”, con l’art. 330 (“Decadenza dalla responsabilità genitoriale sui figli”) prevede che: “Il giudice può pronunciare la decadenza dalla responsabilità genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio. In tal caso, per gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore”.
La Cassazione, forte di precedenti ordinanze, ha ribadito che: “in tema di affidamento del figlio di età minore, qualora un genitore denunci i comportamenti dell’altro genitore, tesi all’allontanamento morale e materiale del figlio da sé, indicati come significativi di una sindrome di alienazione parentale, nella fattispecie nella forma della sindrome della c.d. madre malevola, ai fini della modifica delle modalità di affidamento, il giudice di merito è tenuto ad accertare la veridicità dei suddetti comportamenti, utilizzando i comuni mezzi di prova comprese le consulenze tecniche e le presunzioni, a prescindere dal giudizio astratto sulla validità o invalidità scientifica della suddetta patologia” (Cassazione civile, ord. n. 19305 del 15.06.2022; cfr. Cassazione civile, I sez., sentenza n.6919 del 16.02/.04.2016).
Pertanto, il giudice, una volta venuto a conoscenza del fatto che il figlio si rifiuta di intrattenere rapporti con l’altro genitore, il non collocatario, è obbligato a procedere a verifiche concrete sulla responsabilità del genitore presso cui il minore vive abitualmente e di procedere nei confronti del genitore che ostacola la bigenitorialità, un diritto del minore prima ancora che dei genitori.
Il giudice, verificata l’effettiva assenza di rapporti tra i figli e il genitore non collocatario, non può che nominare un Consulente Tecnico per valutare e osservare la relazione dei figli con ciascun genitore, il quale dovrà individuare le cause, molteplici e molto complesse, che hanno provocato il rifiuto, compresa l’ipotesi in cui i minori siano stati spettatori di ripetuti episodi di violenza paterna sulla madre.
Le conseguenze sui minori di tale “sindrome” sono devastanti, poiché i minori allontanati per alienazione parentale spesso vengono inseriti, provvisoriamente ma poi, invece, per troppo tempo, in comunità, piuttosto che affidarli all’altro genitore per favorire il riavvicinamento tra loro.
C’è da chiedersi a chi giovi questa violazione dei diritti minorili, ma anche genitoriali, Fondamentalmente, per i risvolti economici che stanno dietro a certi affidi e/o ai mancati interventi, a seguito delle richieste delle modifiche dell’affido in atto, caso per caso, e per soddisfare lo spirito vendicativo di madri che non accettano, di fatto, la bigenitorialità, perché, secondo loro e secondo le tante organizzazioni di genere che le sostengono, c’è la inferiorità genitoriale del padre, anche se la memoria storica ci ricorda ben diverse valutazioni.
Impedire ad un figlio di avere rapporti con l’altro genitore, l’artefice del reato, oltre a subire eventuali conseguenze penali, dovrà risponderne anche civilmente, risarcendo i danni subiti dal genitore privato della frequentazione del figlio. Qualche giudice, inoltre, ha predisposto che il risarcimento vada anche al figlio.
Non basta segnalare al giudice le manipolazioni materne sulla giovane psiche del figlio, occorre fare denunce e trovare un avvocato che condivida la battaglia del padre vittima dell’alienazione c.d. genitoriale e che lo difenda strenuamente, sia in tribunale che dinnanzi ai servizi sociali, spesso incaricati di indagare su una questione di cui non hanno competenza professionale. Un legale che non dimostra, concretamente, la condivisione della battaglia morale del padre e del figlio, vittime della genitrice collocataria/affidataria, non serve a nulla, anzi il padre serve a lui per rimpinguare, spesso a nero, le sue casse. Occorre cambiarlo subito o, meglio, non dargli il mandato se si dubita sulla veridicità delle sue promesse.
Ciò anche a costo, per il legale, di subire procedimenti disciplinari (e/o penali), sia da parte dei giudici, dei colleghi dei servizi sociali e/o della controparte.
Avv. Francesco Valentini, tel. 347.1155230, mail:
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