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Non è reato il mancato mantenimento ai figli maggiorenni

(Cassazione penale, sez. VI, sent. n. 1342 del 11.01.2019)

avv. Francesco Valentini*

La sez. VI penale della Corte di Cassazione torna ancora una volta sui propri passi in merito al mantenimento dei figli maggiorenni, anche se studenti.  Con la sentenza n. 1342 del 11.01.2019 sostiene che se una figlia maggiorenne, abile al lavoro (anche se parzialmente invalida e studentessa universitaria, come nel caso analizzato) non riceve più il mantenimento dal genitore non collocatario/affidatario, l’obbligato non commette reato. Far mancare i mezzi di sussistenza ai figli, specificano gli ermellini, è reato solo se sono minorenni o totalmente invalidi al lavoro, così come previsto dall’art.570 c.2 c.p.

Per inabilità al lavoro che impone al genitore l'obbligo di corrispondere i mezzi di sussistenza anche ai figli maggiorenni è da intendersi come “totale e permanente inabilità lavorativa” (artt. 2 e 12 della I. n. 118 del 1971).

“Non integra il reato in parola la mancata corresponsione dei mezzi di sussistenza a figli maggiorenni non inabili a lavoro, anche se studenti: l'onere di prestare i mezzi di sussistenza, penalmente sanzionato, ha infatti un contenuto soggettivamente e oggettivamente più ristretto di quello delle obbligazioni previste dalla legge civile, potendo sussistere la fattispecie delittuosa di cui all'art. 388 cod. pe, qualora ricorrano i requisiti previsti da tale norma (segnatamente il compimento di atti fraudolenti diretti ad eludere gli obblighi di cui trattasi)”.

In una precedente sentenza (n. 24162 del 28 maggio 2018), la stessa VI sez. penale aveva invece stabilito che l’obbligato, in base all’art. 3 della L.54/2006, è sempre tenuto al mantenimento dei figli maggiorenni, indipendentemente dal suo stato economico ed occupazionale. Per cui la violazione costituiva reato. La impossibilità dell’obbligato a far fronte agli obblighi di assistenza familiare per incapacità economica deve essere assoluta e non dipendente dalla volontà dello stesso.

Ora la Cassazione si rivede.

L’inadempienza, spiega la sentenza, non può essere giustificata dalla mancata prova dello stato di bisogno del figlio maggiorenne perché c’è un provvedimento specifico del giudice che, all’atto della separazione e/o divorzio e/o affido dei figli, impone al genitore non collocatario il mantenimento dei figli maggiorenni economicamente non autosufficienti. Dovrà essere il tribunale a revocare tale obbligo. Il delitto è punibile a querela della parte offesa, il figlio maggiorenne, e non del solo genitore affidatario che percepiva l’assegno di mantenimento quando il figlio era ancora minorenne. Il figlio quando diviene maggiorenne ha diritto a ricevere direttamente dal genitore obbligato l’assegno di mantenimento (art. 155 quinquies cc).

La giurisprudenza di legittimità ha una linea univoca nelle sue sentenze, anche se emanate dalla stessa sezione penale.  Non sempre tiene conto che i provvedimenti dei giudici della separazione sono quasi sempre emessi senza una opportuna contestualizzazione della situazione economica dei due genitori e non prevedono, quasi mai, le variabili dovute alle problematiche sociali legate all’occupazione precaria in una società in rapida trasformazione.

La recente sentenza della cassazione si inserisce in questa ottica e fornisce una giusta interpretazione dell’art. 570 c.p.

Si rende quanto mai urgente una diversa ed aggiornata legislazione in merito all’assistenza dei figli nelle famiglie separate. I figli devono essere economicamente mantenuti da ambedue i genitori e non solo da quello non collocatario/affidatario. Il genitore obbligato per disposizione del Tribunale, finisce quasi sempre senza abitazione, su cui grava un mutuo ipotecario a suo nome, e, di conseguenza, con lo stipendio identico a prima della separazione deve pagarsi una nuova abitazione con relative spese di gestione, deve far fronte alla nuova situazione familiare e abitativa, deve provvedere all’assegno di mantenimento dei figli ed a tutte le nuove spese connesse all’esercizio della propria genitorialità.

Il genitore obbligato cade nel regime e nel tenore della condizione precaria, con diritti affievoliti o non riconosciuti, mentre il genitore collocatario si avvantaggia nel nuovo status, in quanto l’assegno di mantenimento e l’assegnazione dell’abitazione, per prassi consolidata dei tribunali, gli permettono di trovarsi un lavoro precario a tempo e quasi sempre “a nero” non certificabile. Situazione, che non approfondita giudizialmente, gli permette di avvalersi anche del gratuito patrocinio, degli assegni familiari e di tutte le nascoste possibilità assistenziali gestite dai servizi degli Enti che, anche senza l’assegno di mantenimento dei figli del genitore non collocatario, coprono ampiamente il costo dei figli. I tribunali limitano la discussione di merito al diktat del dovuto e degli obblighi, senza andare in fondo alle effettive condizione delle parti litiganti. Qui, invece, si nasconde il sottobosco di una cultura illecitamente speculativa, quasi mai sottoposta al vaglio del faro tributario, reddituale e fiscale. Chi parte in vantaggio finisce in vantaggio se nessuno lo controlla lungo la corsa.

Il genitore obbligato, sovente, non ha nemmeno i soldi per poter chiedere la modifica delle condizioni di affido dei figli. Richieste di modifica che, comunque, quasi sempre i tribunali rigettano, soprattutto se l’affido dei figli è stato raggiunto di comune accordo.

La Cassazione con la sentenza in discussione ha voluto richiamare i tribunali su questo aspetto importante della legge. Se i figli sono maggiorenni o hanno una condizione di limitata invalidità possiedono la capacità giuridica per trovarsi il lavoro. Il contrario e l’impossibilità va provata con documentazione probante. Un vecchio motto dice che “un niente non fece danno, ma tanti niente ammazzarono l’asino”.

Esiste un limite di peso sulla groppa dell’asino. Oltre si rischia di inginocchiarlo. L’asino non muore per sua colpa, ma per responsabilità di chi lo ha caricato oltre misura. Poi si cerca di nascondere il fatto o la notizia. Le sentenze hanno un peso nel mondo in cui viviamo e quel peso non si cancella con la scolorina. Sotto vi è sempre l’asino non morto per sua colpa.

 

E’ reato accedere al profilo del partner sui social network

(Cassazione penale, sez. V, sent. n. 2905 del 22 gennaio 2019)

 

Se il partner è “a conoscenza delle chiavi di accesso della moglie al sistema informatico – sentenzia la Cassazione – quand’anche fosse stata quest’ultima a renderle note e a fornire, così, in passato, un’implicita autorizzazione all’accesso” questo non esclude “comunque il carattere abusivo degli accessi sub iudice. Mediante questi ultimi, infatti, si è ottenuto un risultato certamente in contrasto con la volontà della persona offesa ed esorbitante rispetto a qualsiasi possibile ambito autorizzatorio del titolare dello ius excludendi alios, vale a dire la conoscenza di conversazioni riservate”.

La Corte di legittimità (confermata anche nella sentenza 2942/19 del 22.01.2019) sostiene che l’accesso ai profili informatici del partner, anche se in precedenza autorizzati, è sempre abusivo, perché l’autorizzazione, è stata data in regime di pacifica e stabile convivenza (vi era il consenso di entrambi). L’acquisizione di comunicazioni riservate della titolare del profilo informatico, con la separazione, senza la specifica autorizzazione, contrasta con la volontà della persona offesa e pertanto ciò costituisce reato (art. 615 ter c.p.).

Chi accede al profilo FB di un’altra persona, qualificandosi come il titolare, commette il reato di sostituzione di persona. Le informazioni sulla vita privata del partner, di cui si è abusivamente entrati in possesso, non possono essere utilizzate nella separazione e nel divorzio nemmeno quando queste attestano il tradimento del partner. La privacy tra marito e moglie non può essere violata nemmeno per procurarsi le prove della infedeltà del marito e/o della moglie e le prove acquisite illegalmente non possono essere utilizzate nel processo. Chi lo fa, inoltre, rischia di essere processato, dietro querela di parte, per abusivo accesso a sistema informatico (art.615 ter cp) e/o interferenza illecita nella vita privata altrui (art. 615 bis cp). La giurisprudenza è rigorosa.

Le stesse argomentazioni sono applicabili a tutte quelle informazioni e documenti sottratti al partner in modo illegale con abusivo accesso al suo cellulare, computer, email, bigliettini, lettere, ecc. e senza il suo consenso e presentati, incautamente, nei processi di separazione per giustificare l’infedeltà altrui, senza considerare che il tradimento serve solo per escludere il mantenimento del coniuge e non per avere una separazione per colpa con relativo risarcimento economico. Utilizzabili, invece, sono le registrazioni non concordate.

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