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Venerdì 05 Giugno 2015 18:26

Parola della Cassazione

 

Pretendere informazioni sui propri figli

non costituisce reato di molestia e persecuzione

Avv. s. Francesco Valentini


Una importante sentenza della cassazione (I sez. Penale, sent. 13 – 27 maggio 2015, n. 22152 - presidente Giordano – relatore Centonze) con cui si annulla una condanna ad un padre che, dinnanzi agli ostacoli posti in essere dalla madre per farlo stare col figlio minore, cercava di mettersi in contatto con la madre affidataria per poter esercitare il suo diritto alla genitorialità.

La Cassazione, con questa decisione, incomincia ad entrare nel difficile mondo dei figli con genitori non più conviventi, affrontando le criticità del diritto di visita del genitore non collocatario e della tutela, ad ogni livello, della bigenitorialità; diritti, questi, troppo spesso negati e delitti verso i minori e verso il genitore estromesso tacitamente tollerati dalle istituzioni.

I giudici di via Cavour hanno puntualizzato che pretendere il rispetto dei propri diritti di genitore non costituisce molestia ed implicitamente hanno condannato una madre che sistematicamente cercava di estromettere il padre dalla vita del proprio figlio.

Se i tribunali fossero più intransigenti verso tutti quei genitori affidatari che si approfittano della loro presenza continuata con i figli – e pertanto psicologicamente influente – per provocare in loro un rifiuto del genitore non convivente con loro, esisterebbe sicuramente meno conflittualità e maggior rispetto della bigenitorialità. Questo atteggiamento di netta chiusura nei confronti di uno dei due genitori espone i figli al rischio della nota Pas (sindrome da alienazione parentale) le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti anche se troppo spesso sono sottovalutate dai tribunali e dai servizi sociali.

Ma torniamo alla sentenza.

Il genitore che telefona insistentemente all’affidatario dei suoi figli per avere informazioni su di loro, sostiene la Suprema Corte di Cassazione, non commette il reato di “molestie e disturbo alla persona” (art. 660 cp.) nè tantomeno “atti persecutori” (art.612 bis cp.), perché le telefonate non sono “finalizzate a creare disagi o molestie all’ex convivente, ma esclusivamente ad avere notizie del figlio minore, allo scopo di poterlo incontrare, esercitando in tal modo i propri diritti di genitore”.

La madre, pertanto, non può accusarlo di procurarle“pressioni psicologiche da parte dell’imputato, le cui richieste riguardavano solo la gestione dei suo rapporto con il figlio minore”.

I comportamenti contestati al padre, secondo la Suprema Corte, dovevano essere analizzati dal tribunale di merito di Milano, senza entrare nel merito della loro opportunità, se avessero avuto i connotati di petulanza e se hanno interferito sgradevolmente “nella sfera della quiete e della libertà della persona”. Fatto questo insussistente per i giudici romani perché i fatti denunciati dalla madre “risultavano collegati all’esercizio del diritto di visita del figlio minore che l’imputato riteneva ostacolato in modo prevaricatore della sua ex convivente” .

Non è stato tenuto in alcun conto che la madre, inosservante dei decreti del tribunale dei minori, “sovente non consentiva all’imputato di vedere il bambino, ovvero frapponeva ostacoli alla già difficoltosa condizione del padre ovvero ancora esigeva che gli incontri tra padre e figlio avvenissero in presenza sua o di suoi familiari».

Non esistevano gli elementi probanti una specifica volontà persecutoria dell’ex convivente e pertanto occorreva una “interpretazione alternativa dei fatti in contestazione, finalizzata a collegare le condotte del padre non già all’intento di creare una situazione di disagio all’ex convivente, ma a esercitare i propri diritti di genitore ostacolati dalla madre affidataria.

 

La corte bacchetta i giudici milanesi e la signora che – come troppo spesso avviene – vuole privare il figlio dalla presenza del padre e, conseguentemente sentenzia che il fatto non costituisce reato.

 

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