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Venerdì 19 Gennaio 2018 18:01

Le responsabilità dei servizi socio-sanitari.

Inadempienze della legge 241/90. Reato di omissione di atti di ufficio. Accesso agli atti. Note di diritto.


Reato di omissione di atti di ufficio


di Avv. Gerardo Spira*

Siamo ad un punto nevralgico del rapporto-fiducia tra Pubblica amministrazione e cittadino.

Mentre il legislatore col decreto legislativo n.33 del 14 marzo 2013, ha rimarcato e riordinato l’obbligo per la P.A di dare, pubblicare e diffondere le informazioni sulle sue attività, vi è ancora una frangia dell’organizzazione burocratica degli Enti territoriali che resiste alla legge, impedisce l’accesso agli atti, e omette il procedimento amministrativo.

Già con la legge n.15/ del 2005, di modifica della legge n. 241/90, il legislatore ha ulteriormente superato il concetto di interesse legittimo ad accedere agli atti pubblici collocandolo nel mondo giuridico come “diritto”.

Con l’ultimo decreto n.33 del 2013 il legislatore è andato ancora oltre i dubbi e le incertezze burocratiche, parlando di obbligo della pubblicità, della trasparenza e dell’informazione, di diritto di accesso civico di chiunque, senza alcuna limitazione di legittimità, gratuitamente e senza alcun obbligo di motivazione.

In sostanza il legislatore ha aperto il diritto verso il coinvolgimento del cittadino in tutta l’attività pubblica, attribuendo alla normativa carattere cogente (imperativo), di immediata applicazione. Gli atti che si formano nel mondo della P.A. non possono essere negati a chi ne ha diritto e interesse; documenti e provvedimenti vanno pubblicati per consentire al destinatario di essere informato, di partecipare e manifestare il diritto di salvaguardare posizioni giuridicamente rilevanti, definite dalla legge” diritti soggettivi”.

 

Ciò perché, a distanza di oltre 20 anni dall’entrata in vigore della legge 241/90 assistiamo ad un crescente allontanamento del cittadino dalla vita democratica, con le conseguenze pericolose della sfiducia generalizzata e un pressante avanzamento del fenomeno della corruzione, collusione e penetrazione della criminalità nella vita pubblica.

 

A salvaguardia degli obblighi previsti e disciplinati dalle leggi, il legislatore, nella materia che trattiamo, si è anche preoccupato di individuare le sentinelle (responsabile della trasparenza, della prevenzione della corruzione e dei provvedimenti disciplinari) con il compito specifico di rilevare e denunciare inadempienze e responsabilità.

Ciò per le connivenze interne all’amministrazione e le commistioni politico-istituzionali che nascono intorno agli interessi diffusi del vagante sistema elettorale.

Il cittadino viene così chiuso in un circuito di lungaggini amministrative, di ritardi e di costosi ricorsi che alla fine lo costringono a desistere e a rinunciare al diritto di legge.

Nella grande confusione istituzionale il cittadino ha cominciato a cercare il rimedio forte per vedere riconosciuti i propri diritti. In soccorso è intervenuto il codice penale che ha cominciato a dare risultati più efficaci dei rimedi amministrativi per le diverse ricadute personali sul funzionario e, in ordine di danni, sulla stessa P.A.

Evidentemente non fanno più paura le sanzioni amministrative, anche perché, queste, come le acque del fiume, si disperdono nella corsa verso il mare.

Riteniamo invece che le leggi nella materia dei diritti e degli obblighi vanno applicate e se interpretate, ciò deve avvenire nell’interesse del cittadino.

Accendiamo, con questa nota di riflessione, il riflettore sui servizi sociali dei comuni perché siamo allarmati dal rumore della disperazione che colpisce i genitori, separati, quando ad essi viene negato il diritto di accesso e di informazione agli atti che li riguardano.

Abbiamo accertato che le attività dei servizi sociali, nella maggior parte del territorio nazionale sono tenute fuori dalla disciplina della legge n.241/90.

Abbiamo anche notato che alcuni ordini professionali, quando sono state sollevate le proteste sulla mancata regolamentazione delle attività dei dipendenti pubblici, nella materia che trattiamo, manifestano vibrata ed interessata contrarietà alla disciplina per ragioni che risentono più di umore politico che di interesse giuridico. Le risposte, date oralmente e raramente per iscritto, ripetute dalle vittime del sistema, seguono sempre il diffuso schema di rito. La legge sulla privacy, confusa nella sua applicazione, è divenuta la scusante per tenere lontano il cittadino dai suoi diritti. Spesso il malcapitato viene “licenziato” con la frase “rivolgiti al Giudice”. Per parlare col Magistrato il cittadino si rivolge, al Cancelliere di turno il quale ripete la formula: il fascicolo è ancora trattenuto dal magistrato, oppure faccia l’istanza. I tempi di attesa valgono a soffocare e comprimere interesse e diritto.

Le due fasi, interdipendenti ai fini della decisione e autonome nella procedura, di fatto risultano prive di coordinamento e mancanti del controllo e della disciplina sia da parte pubblica che della stessa magistratura. Le Autorità pubbliche invece per legge hanno il dovere di vigilare sul corretto procedimento degli atti e dei provvedimenti.

Riteniamo che questo aspetto vada considerato di primaria importanza per legittimare i procedimenti al rispetto dell’art. 97 della Costituzione che ha fissato due principi: buon andamento amministrativo ed imparzialità. Gli Enti territoriali per legge dal 1990 hanno l’obbligo di regolamentare le attività amministrative dall’inizio alla conclusione. In queste sono comprese anche quelle dei servizi socio-sanitari.

I predetti servizi hanno l’obbligo, secondo la normativa più volte richiamata, di avviare il procedimento amministrativo su ogni caso affidato o delegato, di far partecipare il cittadino al percorso aperto e garantire il diritto all’informazione e all’accesso agli atti che lo riguardano. La legge sulla privacy, spesso richiamata, riguarda la casistica ben normata e chiarita dalle ricorrenti direttive ministeriali. Gli atti ed i provvedimenti, in materia devono solo oscurare i nominativi delle persone a terzi, ma non alle parti interessate. Così come avviene per i provvedimenti della giustizia.

Rifiuti, ritardi ed omissioni impediscono al cittadino di vedere riconosciuto il diritto, falsano il procedimento amministrativo e giudiziario e provocano sfiducia nella Giustizia.

Riteniamo invece che il cittadino deve perseguire tutte le strade del diritto, non esclusa quella penale per fare emergere le responsabilità, talvolta concorrenti e spingere la macchina dello Stato e delle istituzioni a funzionare in modo efficace, efficiente, trasparente e semplificato nell’interesse della collettività.

Una interessante sentenza della Cassazione penale n.45629/2013, in materia, ha aperto il varco al diritto, con la conferma del reato di omissione previsto e punito all’art. 328 c.2 cp, nel caso di inosservanza dei doveri di ufficio, anche quando si è in presenza di silenzio rifiuto.

Il caso riguarda un dirigente di un Ente pubblico che alla richiesta di accesso omise di rilasciare copia dell’atto richiesto, trascurando di rispondere successivamente, in sede di riscontro, alla richiesta di motivazioni del ritardo.

La discussione giuridica, nel corso delle fasi processuali fino alla Cassazione si è appuntata sul termine dei trenta giorni, data in cui matura il “silenzio rifiuto”.

Secondo la giurisprudenza di merito dei primi due gradi di giudizio, doveva escludersi il reato di omissione, ritenendo che il silenzio rifiuto, scaturente in seguito all’istanza in autotutela prodotta dal privato, diventa momento conclusivo e quindi di compimento del procedimento.

La giurisprudenza penale di legittimità della suprema Corte invece ha confutato il ragionamento del giudice di merito, rilevando che il silenzio rifiuto, deve considerarsi un rimedio contro l’inerzia della P.A. attivato dal cittadino, che sorge quando già sono scattate le inadempienze.

Per escludere la responsabilità penale del funzionario, la giurisprudenza precedente ha richiamato l’art. 51 del c.p. il quale detta: l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità.

La giurisprudenza della Cassazione ne ha confutato l’applicazione, sostenendo in proposito che il “meccanismo del silenzio rifiuto” costituisce una “fictio iuris” messo in moto dal cittadino e non un diritto attribuito alla P.A che ha invece il dovere di concludere il procedimento ex legge 241/90.

La Corte di Cassazione, Sez. 6 sentenza n.42610/2015 ha ribadito la linea interpretativa secondo cui in tema di omissione di atti di ufficio, il formarsi del silenzio-rifiuto alla scadenza del termine di trenta giorni dalla richiesta del privato costituisce un inadempimento integrante la condotta omissiva richiesta per la configurazione della fattispecie incriminatrice.

Orbene il reato di cui all’art.328 c.2 c.p. non scatta soltanto nel caso di impedimento, ritardo o rifiuto all’accesso agli atti, ma anche nel caso di mancato avvio del procedimento amministrativo dell’attività richiesta o delegata al funzionario.

La legge 241/90 è intervenuta non soltanto per rendere pubblica e trasparente la P.A ma soprattutto per conformare ed adeguare l’organizzazione amministrativa delle istituzioni al dettato costituzionale di cui agli art.24, 28 e 97.

In conclusione possiamo affermare che la legge 241/90, come modificata, integrata e riordinata con il decreto n.33 del 2013, vincola la funzione pubblica all’osservanza delle norme precettive la cui violazione comportano l’applicazione dell’art. 328 c. 2 c.p, oltre alle responsabilità amministrative, civili e contabili, per i danni che derivano al cittadino interessato e alla P.A.

E né, a mio avviso, si escludono le responsabilità di quanti concorrono nell’applicazione della legge, essendo le funzioni interdipendenti e partecipanti ai procedimenti che, anche se per momenti diversi, non possono ritenersi isolati ed autonomi. Le due vie, quella amministrativa e quella giudiziaria, per la stessa questione, convergono infatti nello stesso risultato del provvedimento finale.

La P.A per sollevarsi dagli effetti delle responsabilità deve provvedere a disciplinare la materia secondo quanto dettato dalla legge, al fine di evitare intrusioni e manifestazioni di pensiero personali, personalizzati e discrezionali. Per i servizi socio-sanitari valgono gli stessi doveri imposti a tutti i dipendenti pubblici e a quelli che trattano la materia soggetta alla disciplina pubblica (coop, e similari).

Dal codice deontologico, punto 13, titolo III, capo I. leggiamo” L’assistente sociale, nel rispetto della normativa vigente e nell’ambito della propria attività professionale, deve agevolare gli utenti ed i clienti, o i loro legali rappresentanti, nell’accesso alla documentazione che li riguarda, avendo cura che vengano protette le informazioni di terzi contenute nella stessa e quelle che potrebbero essere di danno agli stessi utenti o clienti”.

Proteggerle non significa negarle. (8.1.2018)

 

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