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Giovedì 06 Ottobre 2022 08:44

L’assegno di mantenimento per i figli


L’assegno di mantenimento per i figli non è una “retta” che il genitore non collocatario deve pagare all’altro per i compiti domestici e di cura da lui assunti con la loro collocazione prevalente presso di lui, ma un dovere per ambedue i genitori, così come prevedono l’art. 30 della Costituzione e l’art. 155 c.c.. In merito, quest’ultimo afferma: “Salvo accordi diversi liberamente sottoscritti dalle parti, ciascuno dei genitori provvede al mantenimento dei figli in misura proporzionale al proprio reddito; il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità, da determinare considerando: 1) le attuali esigenze del figlio; 2) il tenore di vita goduto dal figlio in costanza di convivenza con entrambi i genitori; 3) i tempi di permanenza presso ciascun genitore; 4) le risorse economiche di entrambi i genitori; 5) la valenza economica dei compiti domestici e di cura assunti da ciascun genitore … Ove le informazioni di carattere economico fornite dai genitori non risultino sufficientemente documentate, il giudice dispone un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi».

La legge è chiara, ma, sovente, la sua applicazione resta incomprensibile, poiché si continua a far pagare un consistente assegno di mantenimento per i figli solo al genitore non collocatario, mentre, per il collocatario, si parla di diritti nella gestione dei figli e mai dei suoi doveri economici verso di loro. Ancora più inquietante è la facilità con cui non si disponga – senza alcuna motivazione - un accertamento della polizia tributaria sui redditi e sui beni oggetto della contestazione, anche se intestati a soggetti diversi, nemmeno quando esplicitamente richiesto da un genitore che materialmente è impossibilitato a fornire al giudice prove dei redditi e/o altri profitti e/o entrate percepite a vario titolo. L’applicazione della legge, pertanto, di fatto, quasi sempre, non è uguale per tutti.

Scarsa rilevanza, nella determinazione dell’entità dell’assegno, ha la permanenza dei figli con il genitore non collocatario e la proprietà della casa coniugale/familiare. Non è una svista del giudice, ma un vero e proprio asservimento ad un “matriarcato” che, sotto mentite spoglie, imperversa ancora in certi ambienti istituzionali, in netto contrasto con il diritto.

Non manca il caso in cui, nei tempi di permanenza dei figli con i genitori, il tribunale disponga un affido paritario, ma, poi, si scrive, nella sentenza o decreto, che trattasi di un affido congiunto “paritario con collocazione prevalente dei figli presso la madre”, al fine di giustificare l’imposizione al genitore “non collocatario” – il padre per consuetudine - il discriminante assegno di mantenimento.

L’affido condiviso paritario, quello vero, non prevede l’assegno di mantenimento e l’assegnazione della casa coniugale/familiare al collocatario, e resta l’unica soluzione percorribile, che riporterebbe giustizia nell’affido dei minori. Troppi giudici, però, sono poco inclini a concederlo e continuano ad alimentare la conflittualità tra i genitori, rendendosi responsabili di un innegabile disagio esistenziale nei figli per il declassamento della figura paterna.

La Corte d’Appello, sbrigativamente, quasi sempre rigetta i ricorsi del genitore non collocatario, che chiede il rispetto della legge, condannandolo – con generiche ed illogiche motivazioni, sempre identiche ad altri casi, come da prassi – al pagamento del doppio contributo unificato, alle spese legali di controparte e di altri balzelli economici, la cui funzione è, prevalentemente, quella di scoraggiare i cittadini a rivendicare il diritto di chiedere un secondo giudizio in merito alla stessa controversia e “alleggerire” i loro impegni istituzionali per i quali sono pagati con i soldi pubblici. Non è questo ciò prevede la legge e si ha l’impressione che certi loro provvedimenti non siano legati al diritto, ma solo alla scarsa propensione dei giudici e/o dei collegi giudicanti ad analizzare in modo approfondito ogni singolo caso, come sarebbe dovere di questi, studiando attentamente il fascicolo ed emettendo la sentenza, che, però, non può essere quasi sempre identica a quella di altri precedenti casi. Troppo sovente nelle sentenze si trovano riferimenti che non hanno alcuna attinenza con il caso su cui sono chiamati ad esprimersi. La discrezionalità del giudice va rispettata, ma non l’ignorare la legge, poiché la legge è uguale per tutti, compresi i giudici.

Il genitore non collocatario (nel 94% dei casi il padre) viene condannato a pagare un assegno di mantenimento per i figli, nei casi in cui è dovuto o lo si impone anche quando non è dovuto. La relativa entità, inoltre, è elevata perché include anche la quota che, per legge, sarebbe di spettanza della madre.

Questa prassi non è più tollerabile, perché riduce alla povertà il genitore obbligato e lo condanna ad essere emarginato dai figli, poiché non può garantire loro, quando sono con lui, una pari dignità genitoriale, dovendo, spesso, elemosinare ospitalità ad amici e parenti.

Fatta chiarezza sulla reale entità dei redditi dei singoli genitori (purtroppo, certe istituzioni pubbliche, con la loro inattività, coprono l’evasione fiscale), i tempi di permanenza dei figli con i singoli genitori, utilizzando le rispettive disponibilità genitoriali, e senza alcun preconcetto verso il genitore generalmente non collocatario, se l’affido paritario non è possibile, il giudice determina l’entità dell’assegno di mantenimento di ogni figlio e lo divide al 50% o proporzionalmente (tenendo conto anche dei redditi non dichiarati) tra i genitori. Il tenore di vita del figlio prima della fine della convivenza non potrà essere pretesa, perché, con gli stessi redditi dei genitori, devono vivere non più una sola famiglia, ma due. I contributi pubblici e privati devono essere rigorosamente ripartiti al 50%.

Questa situazione vessatoria verso un genitore non può più continuare, perché la discriminazione delle istituzioni nei suoi confronti del genitore non collocatario ha accertate e pericolose conseguenze sull’equilibrio psico-fisico dei figli. I legali, spesso, non informano il proprio cliente, genitore estromesso dalla vita dei figli, sui suoi inalienabili diritti genitoriali per non “disturbare” il giudice o, circostanza ancor più grave, non hanno troppa domestichezza col diritto minorile e con il diritto familiare.

Se le istituzioni non rispettano la legge, al genitore non rimane altro che cambiare legale, chiedendo eventualmente il risarcimento per il danno arrecatogli, e procedere contro gli artefici dell’ingiustizia e contro chi, nonostante le pubbliche denunce, non effettua il dovuto controllo. L’assegno di mantenimento va rivisto ed eliminato nell’80% dei casi.

 

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