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Giovedì 12 Gennaio 2023 18:49

Aosta


Una legge regionale sui minori, sulle case

famiglia e sulle comunità protette


La regione Piemonte, con l’approvazione della legge Allontanamento zero, ha deliberato il sostegno alla genitorialità in difficoltà e ribadito il primario interesse dei bambini a crescere nella propria famiglia, bloccando la collocazione - meglio sarebbe dire, sottrazione ai genitori naturali - dei minori con famiglia in difficoltà per collocarli in case famiglia e comunità gestite da cooperative sociali e/o privati. La rivoluzionaria decisione dei consiglieri regionali piemontesi non è stata, ancora, imitata da altre regioni. Nemmeno dalla Valle d’Aosta.

La stampa e le tv, con prevalenza di quelle locali, in queste settimane dedicano particolare attenzione alla lobbystica prassi dei servizi sociali, con l’acritico avvallo di molti giudici, di togliere i figli ai genitori con problematiche familiari per collocarli in strutture, quali case famiglia e comunità che gravitano attorno ai servizi sociali e al variegato mondo politico. A queste vanno aggiunte le strutture protettive che “ospitano” i minori e (quasi sempre) la madre per “sottrarli”, a loro dire, ai maltrattamenti familiari, dietro la semplice querela della madre e su disposizione delle autorità competenti (comprese le forse dell’ordine), che, ovviamente, non dispongono immediati accertamenti sulla attendibilità della denuncia materna. La stessa cosa non avviene se la querela viene fatta dal padre.

Togliere i figli ai genitori è la via più semplice per non andare a cercare le cause del disagio familiare e per non provvedere con appositi e immediati interventi pubblici per risolvere o, almeno, riportare in un contesto accettabile il disagio familiare, quasi sempre di natura economica. Gli enti pubblici pagano, con i soldi di tutti, rette giornaliere che, talvolta, possono arrivare anche a migliaia e migliaia di euro al mese e il costo aumenta vertiginosamente in base al numero dei minori e in base alla presenza materna. La madre, sovente, risulta “ospitata” nella casa famiglia e nella comunità, ma, di fatto, è presente solo la notte e non sempre. Alcune madri, nei casi di denunciata (ma non riscontrata) violenza familiare, continuano a lavorare (spesso, in maniera non dichiarata) e tengono per sé lo stipendio, mentre la collettività passa loro vitto e alloggio. Anche questa è mala amministrazione, camuffata da solidarietà di genere e tutela dei minori.

L’associazione da anni chiede un controllo serrato, fatto da professionisti extra-regionali sull’attività delle case famiglia e delle comunità, attorno alle quali ruota un mondo non sempre all’altezza del compito dichiarato. L’assessorato alla salute e alle politiche sociali, in tutti questi anni, non ha mai risposto per non dispiacere ad un sottobosco clientelare da cui attingere voti e perché, in molti casi, l’amministratore politico è impotente dinnanzi alle lobby del mondo sociale.

La questione va affrontata – e con rapidità – poiché le strutture di accoglienza, troppo spesso, oltre ad essere eccessivamente esose, non danno risposte concrete con personale professionalmente preparato, alle dichiarate e denunciate esigenze dei minori, che vivono situazioni di particolare disagio e, purtroppo, con elevata frequenza, provocano danni psicologici agli stessi minori loro affidati.

Gli enti locali, fra cui anche la Regione VdA, hanno il dovere di garantire la trasparenza nella gestione di strutture pubbliche (o private, ma appartenenti ad enti privati che svolgono un servizio pubblico), finanziate con soldi pubblici, ed hanno l’obbligo di non sperperare le risorse economiche pubbliche in attività sociali incontrollate e che potrebbero essere addirittura dannose per i minori stessi, che, invece, dovrebbero tutelare. Per garantire trasparenza e correttezza gestionale – è molto semplice – basta effettuare periodici controlli, però effettivi, sull’operato di queste strutture, fatti da professionisti extra-regionali, sulla loro gestione economica, sulle attività socio-culturali garantite alle persone presso di loro collocate, sulle qualifiche e capacità professionali del personale utilizzato, sull’esistenza della possibile proprietà occulta di queste strutture, sui loro rapporti con i servizi sociali e con i politici, sull’applicazione di un regolamento operativo che deve essere approvato dagli amministratori degli enti pubblici e dai politici.

Tutto ciò, ed altro, è possibile solo se c’è una volontà politica di repressione di possibili frodi sociali e se c’è anche un controllo diretto dei genitori dei minori ospitati. I costi giornalieri sono eccessivi e, forse, si spenderebbe meno ad ospitare i minori in strutture recettive private a cinque stelle, visto che la qualificata attività del personale è quasi inesistente.

Le ingenti somme che ogni anno la Regione spende per le case famiglia e per le comunità protette devono essere date direttamente ai genitori in difficoltà, a cui sono stati sottratti, indebitamente, i figli, e per pagare il personale specializzato utilizzato nell’assistenza ai genitori su problematiche esistenziali proprie e dei loro figli.

Cambierebbe, così, un modo di tutelare i minori, affrontando direttamente con i genitori e i figli le cause del loro disagio esistenziale e genitoriale. Deve cambiare l’ottica discriminatoria nei confronti dei minori per poter tutelare veramente i minori stessi, con la condivisione e partecipazione dei loro genitori, ai quali si arriva perfino a non comunicare loro e ai loro legali dove si trovino i figli sottratti alla famiglia di appartenenza (dopo che è stata dimostrata – ovviamente, nelle sedi competenti – la infondatezza delle accuse mosse con esposti, denunce e/o querele). I soldi pubblici non possono essere utilizzati per operazioni lobbistiche a scapito dei cittadini.

I regolamenti di gestione delle case famiglie e comunità dovrebbero essere deliberati non dai diretti interessati, ma dalla Regione che affida loro i minori, sentiti i genitori, come pure i loro contratti di affido e i bilanci economici devono essere pubblici, fatta salva la privacy (alias diritto alla riservatezza, che è sempre gerarchicamente inferiore all’esercizio di difesa).

I figli, è bene ricordalo, appartengono ai rispettivi genitori, ma non alle istituzioni, che vorrebbero disporre a loro piacimento della loro vita, basandosi su un servizio sociale anacronistico, non sempre preparato, autarchico e, in molti casi, anche distruttivo dell’equilibrio psicofisico dei minori loro affidati e della famiglia.

Con una legge regionale che blocca l’allontanamento dei figli dal nucleo familiare di origine si farebbe un passo di civiltà, per tutti, e “mai più bambini che urlano e piangono - ha affermato l’assessore alle politiche sociali della Regione Piemonte Caucino, nel suo intervento conclusivo prima del voto - perché spesso con l'inganno vengono portati via da scuola e dai loro genitori, mai più decreti di allontanamento perché il bambino arrivato a scuola con un livido, a casa non c'è la televisione, vive a contatto con troppi animali e in una cascina, mai più in posti con lucchetti alle porte e sbarre alle finestre o ragazzini che non possono mandare una e-mail alla propria mamma”. Aspettiamo una risposta dall’assessore alle politiche sociali valdostane, da tutti gli altri assessori competenti e nonché dai consiglieri regionali di maggioranza ed opposizione.

Solo allora si potrà dire che domani è un altro giorno, per tutti.

Ubaldo Valentini, presidente Associazione Genitori Separati per la Tutela dei Minori (aps)

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