LA BIGENITORIALITA' - 20 Maggio 2009 Stampa

Alibi per l'adulto o un diritto dei figli?
di Ubaldo Valentini *

20 Maggio 2009
La bigenitorialità, termine spesso abusato con retorica insistenza nei dibattiti socio-psicopedagogici e nelle sentenze dei tribunali italiani, non è una conquista ma un diritto naturale per i figli, siano essi minori che adulti. E’ un dovere inalienabile, perciò, primario per i genitori. I genitori sono due e i doveri verso i figli vengono prima dei diritti dell’adulto: “cari genitori, ha scritto un figlio ai genitori separati, io non vi ho cercato, siete stati voi a cercarmi”.

Se ciò è valido per ogni genitore, lo è in modo particolare per i genitori separati la cui condizione relazionale di adulti ha conseguenze sui figli costretti, sempre più spesso, a subire decisioni e imposizioni finalizzate esclusivamente al benessere dell’adulto. Le bugie e le falsità sono parte di un nuovo modo di educare. Le Convenzioni internazionali e le leggi nazionali

ribadiscono questo sacrosanto principio naturale. Il ribadirlo indica però, l’ammissione del non rispetto del diritto dei figli ad avere, nei fatti e non nelle parole, le pari opportunità genitoriali per una crescita equilibrata, serena, positiva e propositiva.
Il mancato rispetto della bigenitorialità ha conseguenze negative sulla formazione della personalità dei minori, sul genitore estromesso dall’esistenza dei figli, sulla società di oggi (quella
amministrata degli attuali adulti) e su quella di domani (quella gestita dai futuri adulti, figli oggi).
Credo che sia opportuna una approfondita riflessione su questa problematica per meglio muoversi nel variegato e talvolta contraddittorio mondo della genitorialità nelle separazioni. Parliamo solo di genitorialità come esercizio concreto e duraturo da parte di ambedue i genitori, altrimenti si fa retorica a danno dei minori. Bigenitorialità come diritto o come dovere? Si è genitori in tanti modi ma si può anche rinnegare la genitorialità pur vivendo quotidianamente con i propri figli.
“Cari genitori, io non vi ho cercato, siete stati voi a cercarmi”
Un figlio sedicenne, abbandonati gli studi, prima di andarsene dalla casa familiare, ha lasciato loro scritto: cari genitori, io non vi ho cercato, siete stati voi a cercarmi.
Affrontare queste tematiche suscita in chi le legge un atteggiamento quasi sempre di non condivisione poiché nessuno di noi ama fare esami di coscienza, assumersi le proprie responsabilità e rinunciare all’attimo fuggente, ammettere che educare i figli vuol dire anche sacrificare la propria esistenza. Sì, è proprio così, non amiamo assumerci fino in fondo le nostre responsabilità dinanzi ai figli. Il matrimonio o la convivenza fallisce non per colpa dei figli ma per la immaturità o superficialità dell’adulto che spesso si illude di poter scaricare le proprie responsabilità genitoriali su un nuovo partner. Rifiuta, inconsapevolmente, le dirette responsabilità sui propri figli e, al contrario, vuol fare il buon genitore per quelli del futuro partner, nuovo o occasionale.
I tribunali sono sovraccarichi di lavoro perché il contenzioso è alimentato, spesso, dall’incapacità genitoriale di uno o di ambedue i genitori. Nelle separazioni esiste sempre la corresponsabilità (con percentuale diversa) di ambedue i genitori, se non altro per essersi “incautamente” uniti. C’è chi questa corresponsabilità l’accetta e chi invece vuole avere tutta la ragione e non ammette le proprie nel fallimento dell’unione, non risparmiando i figli, illudendosi di dimostrare a se stesso e agli altri che lui è una vittima della situazione.
Le vere vittime sono i figli perché è stato l’adulto a metterli al mondo, per amore o per caso o per gioco, e poi con troppa facilità si è dimenticato degli impegni assunti con l’atto procreativo.
Non sono i figli che devono adeguarsi all’adulto ma è quest’ultimo che deve farsi carico – volente o nolente – delle proprie responsabilità genitoriali. Dire che i figli sono sempre, ripeto sempre, stati chiamati alla vita per un atto di amore è quanto di più falso possa esistere quando poi ci si dimentica che tale atto impegna l’adulto fino a quando i figli non saranno pienamente autosufficienti. Le ragioni dell’adulto non sono tali quando considerano il minore come un oggetto e non come una persona.
Cosa dire poi di quei genitori che pretendono che i figli, ancora piccoli o adolescenti, parlino con la testa dell’adulto? Cosa dire di quei bambini che talvolta devono aiutare a crescere il proprio
genitore, evidenziando tanto buon senso che invece non appare affatto nell’adulto?
Il senso del messaggio del sedicenne che rifiuta i genitori sta proprio nel ricusarli per la loro
immaturità e per il loro egoismo. Non sappiamo cosa sia successo a questo figlio, ma sicuramente a
sedici anni si ha ancora il sacro diritto di essere figlio e non genitore dei propri genitori. Crescere
non vuol dire fuggire e la fuga da sé e dalla propria famiglia è l’estrema manifestazione di un
disagio esistenziale che troppi adulti non riescono a comprendere.
“ I diritti dell’adulto non possono essere negati dall’egoismo dei figli!”, si sente ripetere dai
genitori che continuano a fuggire dalla proprie responsabilità e da un mondo culturale che si avvita
su se stesso. Quasi tutte le persone che non hanno figli o sono genitori “per caso”, scrive L. Ravera
in Sorelle, sanno come allevarli e renderli felici molto meglio delle persone che ne hanno. Per il
solo motivo che si muovono nel cielo delle buone intenzioni. I diritti negati sono quelli dei figli a
cui vengono imposte le scelte di un adulto che spesso è continuamente in fuga da se stesso e dal
vuoto interiore che lo circonda. Il volume di Ravera racconta la storia di due sorelle separate, di
fatto, dall’egoismo di ambedue i genitori. Una bambina, infastidita della presenza del nuovo
compagno della madre, l’abbandona, lasciando anche la sorella per inseguire il padre a Parigi. La
madre, seccata per il gesto, non parla più con lei e le due sorelle si perdono di vista. Il padre, dopo il
momentaneo entusiasmo, vorrebbe che la figlia torni dalla madre, perché divenuta un peso e un
ostacolo alla sua seconda adolescenza che vorrebbe rivivere.
La figlia scappa nuovamente e definitivamente da ambedue i genitori. Dopo anni rincontra
la sorella, anch’essa fuggita da casa, e così valutano i propri genitori: capita che ci si sposi e ci si
stanchi, che ci si stanchi di sposarsi, che ci si accorga di aver sbagliato sposo e se ne sposi un
altro. Siamo noi che non possiamo sceglierci loro, i nostri padri e le nostre madri. Ma loro fra
loro, possono scegliersi e quindi licenziarsi vicendevolmente, scegliere da un’altra parte e così
via…. C’è stato sempre qualcosa di non autentico nei miei rapporti con mamma. Papà ha molti più
difetti… e poi è egoista, superficiale, vanitoso e bugiardo. Da famiglia siamo diventati
un’aggregazione, un gruppino, un gnocchetto di umani spaiati che può essere tranquillamente
infilato in un deposito, in attesa che arrivi un altro capo branco... In definitiva immagino che
nostro padre e nostra madre abbiano bisogno di noi perché la nostra nascita li ha modificati. Sono
canguri con la tasca vuota e allora saltano malamente dissipando energie. Se puoi torna - dice
all’altra, la sorella scappata per prima – per restituire loro la zavorra del loro peso.
Chi sono egoisti i figli che non accettano le separazioni o che rifiutano le nuove relazioni dei
genitori o il genitore che antepone il proprio narcisistico io al bene e alla serena crescita dei figli che
spesso richiedono tempi lunghi e non tollerano forzature?
Se nel precedente matrimonio o relazione non si è creduto nel vincolo affettivo e nel
reciproco rispetto, lasciandosi trascinare dal solo legame passionale, come si potrà essere buoni
genitori e buoni partner per nuovi legami e nuovi figli? E’ un dubbio lecito, anche se non vuole
essere categorico. Il matrimonio d’amore – scrive Vittorino Andreoli su “Alfabeto delle relazioni” –
quello dello “stiamo insieme finché stiamo bene”, dura poco e allora o si susseguono i matrimoni
oppure lo si evita perché rende più facile il passaggio da una storia all’altra, sempre breve e
sempre all’insegna della diversità. Ma è proprio su un legame diverso dall’amore che il
matrimonio può reggere, facendo affidamento sulla forza di un passato, di una solidarietà, dello
stesso dolore che ha legato in momenti difficili. Sulla presenza e l’interesse educativo verso i figli, una considerazione per la storia e il suo rispetto, proprio perché tracciata insieme. Questo è il binario che dà continuità ad un legame che se non è più bollente è significativo e unico e si giunge a Caio che ha necessità di Caia per vivere, e si scopre che la vita non è solo passione.
In tanti anni di lavoro a tutela dei figli dei separati e a stretto contatto con i genitori separati
ho sempre sentito ripetere che i figli, egoisti per natura, devono essere “svezzati” dai genitori,
devono crescere e non possono intralciare i diritti dei genitori “adultizzati”. Spesso sono intolleranti
verso i figli che non accettano le nuove relazioni e il loro essere sballottati da una casa all’altra, da
una città all’altra. Manifestano, di fatto, tolleranza zero e si sentono autorizzati a ripetere loro: “o
fai come dico io o quella è la porta!”. Se i figli provano a contestare o fare osservazioni sul
comportamento del genitore con cui vivono, allora iniziano guai seri: autoritarismi genitoriali,
intolleranza e quant’altro deleterio per dimostrare come i figli in realtà non contino nulla, . La casa
è il luogo dove l’adolescente si educa, si relaziona. Sbattere uno fuori da casa non rientra in nessuna
progettualità educativa. La casa in cui vivono i figli non è solo dell’adulto perché adulto e perché ha
uno stipendio, ma appartiene a tutti coloro che vi abitano e prima di introdurci ospiti si dovrebbe
avere la correttezza della richiesta del permesso, altrimenti sono indesiderati.
L’adulto disquisisce sulle frequentazioni dei figli, ma i figli non possono dire nulla su chi
sottrae loro affetto e spazi vitali. Sì, perché l’uno è adulto e può fare ciò che vuole mentre il figlio
deve solo obbedire. Ancora Andreoli su “Lettera ad un adolescente” scrive: L’impegno di un padre
sul lavoro, fatto sempre passare come impegno e sforzo per la famiglia, non fonda la sua autorità,
ma semmai il potere, l’autoritarismo, che è una patologia dell’autorità. La stessa cosa vale per la
madre. Essere autoritari (non autorevoli) significa pretendere da un figlio semplicemente perché si
può pretendere, al di la della relazione, che è sempre un legame a doppia direzione. L’autorità è
anche carisma e desiderio di stare con l’altro, di sentirlo in certe situazioni particolarmente….E’
bellissimo educare, significa tirare fuori e non imporre, come spesso si crede.”Educare” vuole
anche dire “venire educati”. Quella educativa è una relazione a due dove chi educa e chi è
educato non sono distinguibili, e addirittura si possono cambiare i termini, anche se non i ruoli,
che devono invece restare ben differenziati: semplicemente, talora il figlio apprende dal padre e
talora il padre impara dal figlio e quindi ne viene educato. Quando un genitore fa del male, sia
pure inconsapevolmente, a una delle sue creature, con quello stesso gesto fa del male a se stesso.
L’adolescente deve poter sognare sempre, anche ad occhi aperti. L’adulto non può
permettersi di smorzare la sua fantasia e il suo bisogno di essere amato. L’amore è nella donazione
e nell’accettazione. Le esteriorità affettive di certi genitori non aiutano a crescere i figli, ma servono
solo per “silenziare” la coscienza dell’adulto che non ha rispetto dei tempi, talvolta lunghi, del
minore.
Tutti sono genitori, ma non tutti sono padri e madri.
La bigenitorialità non riguarda esclusivamente la sfera personale
ma incide profondamente nella cultura e nella società
Il disagio affettivo ed esistenziale dei figli - soprattutto se minori e pertanto non in grado di
rielaborarlo in modo equo, esaustivo ed autonomo – ha una profonda ricaduta nella formazione
della loro personalità e nel loro inserimento nella società.
Per queste ragioni gli adulti non possono ignorare le conseguenze del loro atteggiamento nei
confronti dei figli, in bene e in male. Non si può tollerare che su queste problematiche ci sia tanta
superficialità culturale ed operativa da parte degli ”addetti ai lavori”. Le istituzioni pubbliche, a cui
compete anche il controllo, devono intervenire poiché il mancato rispetto della genitorialità provoca
conseguenze negative e sociali sulla formazione e sulla crescita dei giovani. A chi dimentica il
proprio dovere genitoriale occorre ricordarglielo, talvolta anche in modo energico se necessario.
Anche questa è una forma di tutela sociale.
Non possiamo ignorare che i minori e i giovani di oggi vivono sulla propria pelle un
profondo e specifico travaglio interiore: sono disorientati e, di fatto, abbandonati a se stessi. Il venir
meno di una loro totale accettazione nella famiglia di origine, la ricerca di figure sostitutive ai
genitori naturali, l’abbandono che percepiscono li portano a cercare “figure esistenziali” esterne,
spesso virtuali o devianti. La microcriminalità, l’uso di stupefacenti e dell’alcol, la violenza gratuita
verso se stessi e gli altri, l’abulia sociale, il sesso come sovrastruttura esistenziale, ne sono un
eloquente esempio che, finalmente, anche gli analisti sociali e psicologici evidenziano.
Chi sostiene che tutto ciò è presente anche nelle famiglie non in crisi, non dice la verità.
Queste devianze sono solo e sempre presenti là dove non sono chiari i doveri genitoriali e dove non
c’è il profondo rispetto dei diritti dei figli, soprattutto quando domina l’egoismo e il narcisismo
degli adulti.
I luminari della psicologia che si ispirano o si fanno guidare dal principio del “fai da te”
gratificante, i sociologi e tutti coloro che tendono a misurare o negare questi aspetti non danno un
buon contributo alla comprensione della verità. Si parla sempre dal punto di vista dell’adulto e i
figli vengono considerati quasi esclusivamente nell’ottica dell’adulto.
Ma i figli dei separati e delle famiglie in crisi li abbiamo seriamente sentiti, testati, per
tracciare una mappa delle loro esigenze, delle loro prospettive, delle loro aspettative, del loro
malessere esistenziale? Per farlo occorrono strumenti idonei e competenze specifiche. Altrimenti si
rischia di teorizzare le aprioristiche tesi degli adulti e non le esigenze dei minori, creando
confusione ed alimentando solo il qualunquismo genitoriale. Solo dopo un serio sondaggio –
ripeto, qualificato e rappresentativo, cioè oggettivo – si può parlare dei minori in specifico e dei
figli in generale con competenza e in modo veramente prospettico e propositivo.
La bigenitorialità va vista in direzione del presente, con cure drastiche anche se dovessero
risultare non piacevoli per l’adulto, per una società più equa verso i minori e più rispettosa delle
loro esigenze ed attenta alle loro aspettative. Se il presente sarà corretto anche il futuro della società
sarà meno conflittuale ed eticamente meno evasivo.
Non vogliamo penalizzare le separazioni e i figli dei separati, ma onestà intellettuale vuole
che si guardi in faccia la realtà e si abbia il coraggio di dire che le separazioni con figli non è un
fatto privato degli adulti, ma coinvolge in modo pesante anche i figli e l’intera società.
Le responsabilità vanno ricercate nel comportamento degli adulti, nella loro superficialità o
immaturità di uno o ambedue i genitori, nella incapacità ad affrontare le difficoltà di coppia con
onestà, nella scarsa considerazione che si ha dei figli. Non c’è vita di relazione senza difficoltà e i
problemi non si risolvono eludendo la situazione che si è venuta a creare. Chi in passato non ha
avuto l’avvertenza di evitare i danni ai propri figli non potrà mai essere un buon genitore e, forse,
nemmeno un buon partner per nuove situazioni.
L’affettività e il rispetto dell’altro, soprattutto se minore e non conta per il potere personale e
sociale, non sembrano essere più valori stabili ma sensazioni, sebbene fortemente coinvolgenti, che
mettono al primo posto il nostro essere sociale, altamente formale, il nostro voler apparire così
come la società richiede.
Tutto ciò non è retorica, ma solo attenta analisi di quello che accade attorno a noi e constatazione
della diffusa convinzione che l’attualità escluda scelte coraggiose in campo affettivo e familiare. I
giovani non vengono più educati all’affettività e al rispetto degli altri e tutta l’esistenza sembra
incentrata sull’attimo fuggente o su “così è se mi pare”. Facendo ciò si mente a se stessi ed agli
altri, si alimenta la fantasia dell’adulto ma si uccide, anche, la dignità e le aspirazioni di ciascuno di
noi. Si può pianificare tutto, anche i sentimenti e le idealità o ciò che è ritenuto tale, ma nel farlo si
allontana la verità e, senza avvertirlo, si uccide se stessi e la propria dignità umana.
I modelli sociali – e di conseguenza quelli educativi – sono improntati sulla rilevanza del
singolo in una ottica che talvolta sfiora la pura esaltazione dell’egocentrismo dell’adulto, anche se
bizzarro e pertanto affascinante. L’apparire ha preso il sopravvento in tutti noi e il dover essere
viene avvertito come una costrizione lesiva delle “nostre” aspettative e potenzialità. Se poi non
riusciamo ad attuare i modelli vagheggiati, allora ripieghiamo in uno stato di rivalsa verso tutto ciò
che ci circonda e su tutto ciò che oppone una resistenza solo virtuale. I figli, spesso, sono le vittime
di questa sottile alienazione o duplicazione della personalità dell’adulto con cui sono costretti a
vivere.
La cultura, in primo luogo, è compiacente di una società di fatto virtuale, che semina vuoto e
insoddisfazione, che alimenta disagio indistintamente in tutte le sue componenti. Gli adulti sono
vittime, come i giovani, di un sistema da loro costruito o lasciato esistere con la loro connivenza. La
politica annaspa alla ricerca di una identità e di un ruolo che non ha più nelle coscienze dei cittadini
e sempre più rivela la sua vera natura di strumento di potere nelle mani di pochi. I cittadini tacciono
perché non vogliono, nemmeno loro, perdere il rifugio dell’illusione. La famiglia e la scuola sono
sempre più luoghi di contenimento di persone che punti di riferimento educativi ed esistenziali. La
famiglia è sempre più assente nella formazione dei figli e la scuola ricade in un formalismo, talvolta
privo anche della informazione-formazione culturale.
Sono necessarie coraggiose scelte di campo, in concreto e non solo a livello di aspirazioni e
idealità, che rimettano al centro della società valori esistenziali vissuti non come costrizione ma
come risorsa per una crescita che si attua nel tempo e tra le contraddittorie scelte quotidiane. Parlare
di queste cose si corre il rischio di essere accusati di vivere fuori dal tempo. Ma siamo sicuri che a
vivere fuori dal tempo non siano tanti e soprattutto coloro che non riescono a rinunciare al tempo
estetico per il tempo etico?
In un’epoca in cui l’uomo si è liberato dal dominio della filosofia, il concetto di impegno
etico e di imperfezione si sono rivelati più vuoti che mai. Il termine imperfezione – scrive Ricardo
Peter in “Una terapia per la persona umana”– nell’uso presente, chiarifica e restituisce all’uomo la
sua verità, concependolo come un essere che deve sopportare il peso dei suoi limiti. L’antropologia
del limite è concepita dal punto di vista dell’uomo “disincantato”, cioè cosciente dei suoi limiti. Ad
un umanesimo dell’”auto-esaltazione obbligatoria” si contrappone un umanesimo dell’autoaccettazione.
La cultura stimola l’uomo a non accettare i propri limiti, a “farsi dio”, a puntare a quella che
altro non è che l’esaltazione del proprio io, inteso come centro di perfetta realizzazione; un io, però,
prigioniero degli schemi esistenziali che l’uomo si è dato. Si punta alla divinizzazione dell’uomo e
la convivenza con i propri limiti diviene intollerabile, mortificante, si trasforma in incapacità ad
accettare se stesso, ad orientarsi nella quotidianità, ad accettare la vita che è, inevitabilmente,
l’espressione della imperfezione dell’uomo.
Si scopre psicologicamente impotente e spiritualmente debole. Non accetta questa
dimensione ed allora o ritorna all’epoca dell’infanzia, immaginando un’isola che non c’è o si rifugia
nelle ideologie religiose oppure esalta il suo narcisismo e il suo egoismo, ritenendosi migliore degli
altri uomini, loro sì imperfetti!. Neanche in queste soluzioni trova quella felicità che va cercando. Il
fariseo – continua Peter – era andato al tempio per pregare, ma in realtà non prega, informa Dio
della sua perfezione. Ostenta le sue virtù e coerentemente rimane in piedi, per mostrarsi a Dio.
Non solo è perfetto ai suoi occhi, ma vuole esserlo agli occhi di Dio. In realtà non è Dio al centro
della sua esistenza ma il suo io, per questo prega così: “Oh Dio, ti ringrazio perché non sono come
gli altri uomini, che sono ladri, ingiusti, adulteri”.
La consapevolezza del limite permette lo sviluppo di una coscienza sana, più profonda e
realista nei confronti di se stessa, e liberatoria rispetto a schemi mentali e comportamentali,
abituali, legati alla quotidianità. Un essere cosciente dei propri limiti è un essere recettivo, si aiuta
ad amarsi e ad amare gli altri. Sono le convinzioni “illimitate” quelle che di fatto mi limitano e mi
vincolano a uno schema che non mi permette di crescere né di espandermi come persona. Si ha un
nuovo modo di relazionarsi con i propri errori, vengono compresi e da essi si impara a costruire una
nuova realtà di esseri umani in carne ed ossa.
La bigenitorialità non esiste se non esiste un genitore responsabile dei propri doveri che
vanno ben oltre le momentanee frequentazioni dei figli, che antepone il loro bene ai propri interessi,
spesso narcisistici, poiché li ritiene una risorsa e non un peso. Nelle separazioni si lotta per avere il
possesso talvolta “esclusivo” dei figli e poi si innesta un inconscio (ma non sempre!) loro rifiuto
perché si ritengono ostacolo alla libertà affettiva e relazionale. Il rifiuto è interiore e i figli,
soprattutto nella fase pre e adolescenziale, lo avvertono distintamente, lo subiscono e progettano in
cuor loro la fuga da una situazione che non possono rifiutare per mancanza di autonomia
psicologica ed esistenziale. Spesso questi minori hanno anche rapporti interrotti o scarsamente
significativi con l’altra parte familiare. E spesso è stato proprio l’adulto ad istigarli a ciò. Troppo
spesso i figli sono vittime-protagonisti di vendette trasversali tra i genitori separati.
Che dire poi di tutti quei genitori che, dopo il fallimento del matrimonio o convivenza mettono al
mondo altri figli, spesso per sentirsi gratificati o per avere un “giocattolo” tra le mani! E’ questa la
vera paternità o maternità?
Non si nasce genitori ma lo si diventa sull’esempio del proprio vissuto infantile ed
adolescenziale. Educare i figli vuol dire essere per primi veicolo di esempio e testimonianza. Le
parole dell’adulto, disconnesse dall’esempio vero e concreto, servono solo a mascherare il proprio
vuoto esistenziale e la propria incapacità a rispettare il minore come persona, con doveri ma anche
con tantissimi diritti spesso ignorati o, ancora peggio, negati. La coerenza, la trasparenza e
l’esempio del genitore stimolano i figli a crescere sereni e rispettosi dell’altro. Chi è violato nei
propri diritti interiori e nelle proprie aspettative nell’età della crescita, sarà inevitabilmente artefice
di violenza verso di sé e verso il mondo che lo circonda.
Spesso i genitori senza accorgersene ritornano adolescenti e spesso si mettono in
concorrenza con i propri figli adolescenti. Tentano di rivivere una fase esistenziale che non gli
appartiene più. Tutto ciò diviene deleterio e distruttivo per i figli orfani di modelli comportamentali
ed etici. E’ una affermazione dura, ma tanto realistica, soprattutto ai giorni nostri.
Il vero problema è l’atteggiamento che assumiamo di fronte ai nostri problemi. Operare un
cambiamento equivale a modificare la condotta nelle diverse situazioni esistenziali di ogni giorno.
Credo che solo così si possa essere genitori costruttivi e portatori di serenità ai figli. Il resto sono
parole al vento. E non lamentiamoci poi se i nostri figli, un domani, avranno seri problemi con la
scuola, il lavoro, le relazioni sentimentali e con l’uso e abuso del corpo. Saremo stati noi adulti a
costringerli a vivere al margine di una società che noi con la nostra indifferenza abbiamo lasciato
loro. La società riguarda tutti noi.
L’esperienza dell’abbandono: i figli e i nuovi partner dei genitori
I figli si adeguano, di volta in volta, alle esigenze del genitore con cui stanno ma non per
questo si può sostenere che ne condividano interiormente le scelte. Cercano di attirare la sua
attenzione, per l’estremo bisogno di affetto, ricorrendo a frequenti bugie sul genitore assente per
rendersi più credibili all’occhio dell’adulto: accettano tutto del genitore con cui sono “costretti” a
vivere, anche perché sono facilmente influenzabili e spesso senza alternative. L’adulto crede di
avere il loro assenso, ma non è poi così, come la letteratura clinica ha dimostrato e sempre più
conferma.
Possono instaurarsi meccanismi che portano ad una fuga dalla realtà e che condizionano
pesantemente la crescita relazionale ed affettiva dei figli. Si chiudono in se stessi, accettano le scelte
imposte dall’adulto poiché temono di perderlo e di essere abbandonati. E’ un evidente stato d’animo
di figli in difficoltà per la rottura della famiglia e per la mancanza di un affetto chiaro ed esaustivo
dei due genitori che si manifesta nello studio saltuario, nel disimpegno in genere e nella mancanza
di obbedienza all’adulto, nella ricerca affannosa di un affetto esterno come sicurezza per il temuto
abbandono dell’adulto. Fanno di tutto per richiamare la sua attenzione e spesso ricorrono anche a
stati di ilarità che in realtà celano un profondo disagio esistenziale per il rifiuto della condizione di
solitudine in cui sono costretti a vivere e per le scelte loro imposte.
I nostri figli crescono senza più maestri sia in famiglia che nella società.
Una volta autonomi e consapevoli della propria realtà, inevitabilmente manifesteranno il
proprio dissenso verso il genitore che è stato più costrittivo e meno sensibile alle loro esigenze con
il quale hanno vissuto per incauta scelta o per imposizione. In tantissimi casi nasce un rifiuto del
genitore e, quando va bene, manifestano una indifferenza verso di lui e verso il partner. I nuovi
partner e i loro figli non verranno quasi mai accettati: è l’adulto che ha interesse a crederlo per
smentire se stesso.
I figli cresceranno immaturi e arrabbiati verso il mondo che li circonda e molti di loro
stempereranno la rabbia con comportamenti aggressivi verso di sé e verso la società. “I giovani
cresciuti con carenze affettive e valori deboli,- scrive Donata Francescano in “Figli sereni di amori
smarriti” – non avranno grandi capacità di prendersi cura di se stessi e di contribuire alla
soluzione dei numerosi problemi sociali e ambientali che si dovranno affrontare nei prossimi
decenni. Aumenteranno i suicidi, gli incidenti stradali, la violenza privata e pubblica, l’abuso di
droga e alcol.
Tra figli e genitori separati spesso c’è un abisso e la causa di ciò viene ricercata nel mondo
esterno frequentato dai figli, spesso lasciati in balìa di se stessi e schiacciati dalla solitudine e dalla paura a camminare da soli, mentre il vero problema è il loro mondo interno e familiare: profondo, spaventoso, sconosciuto, terribile, talvolta pervaso da una dolorosa sensazione di vuoto. Al genitore separato, per aiutare i figli adolescenti, viene richiesto grande impegno, attenzione verso il minore e assenza di irritabilità. Invece spesso avviene il contrario, il genitore non ha tempo o pazienza perché troppo preso dalla sua desiderata nuova relazione sentimentale o dal desiderio di crearsela, lasciando l’adolescente più tormentato e vuoto di prima. Il tempo che dedica alla nuova relazione finisce per sottrarlo ai propri figli. Se sta ore e ore al telefono o accanto al nuovo partner, quando resta con i figli sarà poi così sereno, attento e propositivo? Il genitore diviene incapace   comprendere e rimuovere la paura che rende il mondo noioso ai propri figli e tra di loro si innesca un perverso meccanismo autodistruttivo di reciproco rifiuto e riporta a zero il nascente senso di autostima dell’adolescente.
Sovente è lo stesso genitore che inconsciamente rifiuta i figli e loro avvertono questo
mistificato disinteresse anche se coperto da consolatori regali e dannosi permissivismi o da
inautentiche manifestazioni esteriori di affettività.
Gli stessi genitori, un domani, si renderanno conto che la serenità dei figli era formale e che
in realtà chiedevano aiuto ed attenzione. Ma quando l’avvertiranno, finirà una illusione e inizierà,
talvolta, un calvario anche per l’adulto, spesso immaturo, egocentrico e superficiale.
I genitori sono portatori di regole comportamentali e codici etici che vengono trasmessi ai
figli attraverso l’esempio. Ma se i genitori sono i primi a non essere trasparenti, coerenti e
consequenziali a quanto vanno richiedendo o imponendo ai figli, se sono bugiardi e mistificatori
quali insegnamenti quest’ultimi ne possono trarre dal loro comportamento? Sicuramente la spinta a
mentire, se proprio non possono farne a meno, e ad evadere qualsiasi forma di impegno e di
sacrificio.
L’affetto, la coerenza, la sincerità, l’onestà e la lealtà sono valori e se non vengono trasmessi
ai figli, si alimenterà in loro la formalità dei comportamenti e la convinzione che nessuna cosa
debba essere presa con troppa serietà. Educare vuol dire prevenire ma anche condurre per mano i
figli alla scoperta di una vita che è fatta di responsabilità e sacrifici. Ma i genitori che non vedono
oltre il proprio orizzonte esistenziale, interiormente mistificato, ludico e disimpegnato, cosa
potranno dire ai propri figli senza sentirsi ripetere: ma tu che fai?
Per evitare questo stato di conflittualità con i figli, giudici attenti e severi dei genitori,
l’adulto si abbandona ad un permissivismo o ad un rigorismo (spesso nemmeno sfiorato per se
stessi) che non promettono nulla di buono. E’ anche giusto che per pretendere dai figli bisogna
prima dare loro esempio e affettività. Affettività e non lassismo. Riprendere un figlio è un atto di
affetto, purché sorretto da esempio, correttezza e coerenza. La mancanza di credibilità – o meglio
sfiducia nell’adulto – è sempre presagio di cattive sventure.
Le famiglie allargate, rifatte, non sempre permettono una soluzione positiva per i figli
poiché tali scelte dell’adulto, in cuor loro, vengono subite più che accettate e tanto meno condivise.
Non esistono indagini specifiche, ma queste tematiche sono al centro del dibattito sulla genitorialità.
Mettere assieme figli di diversa provenienza crea confusione nelle figure di riferimento e suscita nei minori, soprattutto in quelli più deboli, sfiducia in sé e nella vita. Lo stesso ruolo educante del genitore viene visto dal figlio come una ingerenza nel privato che lo porta a rifugiarsi in figure di riferimento extrafamiliare. I figli di genitori diversi non sempre si accettano e talvolta nemmeno si tollerano, soprattutto col finire della novità. I genitori, per assolvere al proprio ruolo educativo ed affettivo, devono essere preparati ed essere dei buoni “equilibristi” fra interessi diversi e figure che possono incidere sui propri figli e non su quelli del partner. Ma tutto ciò si rivela quasi sempre una pia illusione.
Vittorio Cigoli, nel volume “Psicologia della separazione e del divorzio”, si pone alcuni
interrogativi sul futuro dei separati. Come organizzeranno la propria vita le persone che
intraprendono la strada della separazione e del divorzio? Che struttura relazionale scelgono dopo
lo scioglimento del legame coniugale? Uno degli esiti possibili è un nuovo matrimonio. Ma che
caratteristiche hanno le famiglie che sono il risultato di un’unione realizzata dopo l’esperienza di
una separazione? Quali vicissitudini hanno i legami delle persone che stabiliscono un nuovo patto
coniugale?
Le problematicità per le persone di doversi situare contemporaneamente a differenti livelli
costringe i genitori ad affrontare problematiche relazionali di complessa gestione. A ciò si può
aggiungere come organizzativamente la vita di una famiglia ricostruita sia di fatto complicata:
domicili diversi, dove i figli trascorrono parte o periodi della propria vita; fine settimana o vacanze
alternate con uno dei genitori; guardaroba dei figli divisi in luoghi diversi; procedure di decisione
su argomenti particolarmente delicati, come la scuola, di difficile gestione e così via.
La definizione dei ruoli è un altro problema evidente di questa tipologia di famiglie. La
teoria psicosociale dei ruoli ci ricorda come essi siano dei copioni prefigurati dalla cultura che le
persone assumono nel momento in cui si inseriscono in una determinata rete sociale.
C’è poi la problematica specifica del legame. Ossia a come la stipulazione di un pattovincolo
tra adulti in quanto partner avanzi una richiesta di “esclusività” che si spinge a volte a
tagliare fuori i precedenti legami della persona, tra cui anche quelli con i figli.
Molte persone che si risposano o convivono più o meno stabilmente si affidano al pensiero
del “riproviamo” e del “facciamo come se fosse la prima volta”, quasi che l’esperienza precedente
di matrimonio e le conseguenze anche oggettive ( i figli) di quell’esperienza non ci siano o non
debbano incidere sul nuovo legame.
Da tutto ciò si evince come le nuove unioni siano necessariamente più impegnative e difficili
delle prime unioni. Il legame genitori-figli, nato prima di quello tra i membri delle nuove unioni
può porre in situazione di rivalità l’adulto nuovo coniuge e il figliastro. Si viene a stabilire un
piano di conflittualità che rende difficile la relazione fra le generazioni presenti nella nuova
famiglia.
Non bisogna dimenticare che ai figli dei separati è stato loro sottratto il diritto alla famiglia
con un atto di inaudita violenza psichica e non solo. Il futuro non è la famiglia spezzata o rifatta, ma una famiglia condivisa tra persone diverse ma attente ai propri figli. Con troppa leggerezza si
mettono al mondo i figli per soddisfare un innato atto egoistico di possesso da parte dell’adulto. I figli non sono un possesso ma un impegno a lunga scadenza al quale non ci si può permettere di sottrarci con troppa facilità. Negare la famiglia a un minore sicuramente ha un costo sociale elevato a cui troppo spesso si dà scarsa considerazione.
La genitorialità inutile
Si assiste continuamente a dure battaglie per l’applicazione della bigenitorialità nelle
separazioni. Ma cosa significa bigenitorialità se manca poi proprio la capacità genitoriale? Spesso,
troppo spesso, la lotta nei tribunali da sentimento di appartenenza alla vita dei propri figli si
trasforma in un rituale che maschera il bisogno di sicurezza dell’adulto che usa i figli come
strumento di vendetta verso l’altro coniuge o come consolazione nei momenti in cui ci si potrebbe avvertire sentimentalmente soli.
La genitorialità va difesa ma solo quando nasce da un sentimento sincero, altruistico e
rispettoso della personalità dei minori. E’ difficile stabilirlo al momento del contendere, ma una
volta che si avvertono i celati abusi psichici sui minori - anche il non rispetto delle loro esigenze di
affetto e di “esclusività” del genitore con cui vivono è un abuso a qualsiasi livello della società si
deve intervenire per ristabilire il giusto equilibrio genitoriale. Si è voluto essere genitori, non sono
stati i figli ad imporcelo!
Il rifiuto dei figli da parte del genitore è subdolo, mascherato, che incide profondamente
nelle loro coscienza e nel loro equilibrio psico-fisico. Si può essere grandi genitori ma altrettanto
grandi persecutori dei figli. Lo si è quando diventano un peso, un ostacolo alla nostra libertà
relazionale.
I peggiori maltrattamenti dei figli sono quelli che toccano la sfera affettiva, una sfera troppo
spesso trascurata anche dai professionisti della psiche. Nelle separazioni con tanta leggerezza si
considerano solo le esigenze socio-psicologiche dell’adulto, trascurando il tradimento affettivo che i figli, soprattutto se piccoli o adolescenti, subiscono da parte del genitore preso a ricostruirsi il proprio mondo sentimentale ed affettivo. Non è affatto vero che i figli accettano sempre e comunque le scelte dell’adulto. Non è vero che tanto prima o poi si adegueranno ai desiderata dei genitori. Si sentono emarginati e tale senso di emarginazione la proietteranno nella loro vita futura, emarginando, di fatto, l’operato dei propri e altrui genitori.
Peter Pan è celato un po’ ovunque e la sua sindrome non promette nulla di buono.
La tutela dei minori non è un fatto privato del genitore o dei genitori ma spetta alla società,
ripeto a qualsiasi livello, salvaguardare se stessa, proteggendo i futuri cittadini.
Affermare ciò non significa negare la possibilità all’adulto di ricrearsi nuovi affetti e nuove
sessualità. E’ solo questione di priorità e di discrezioni. Nel giro di mesi si alternano partner o
presunti tali e i figli sono costretti a registrare le stravaganze o immaturità genitoriali. Far vedere ai figli che si gioca con i sentimenti e con il sesso certamente non li educa al rispetto dell’altro e non li prepara a rapporti affettivi seri e duraturi.
Se tutto ciò il genitore-adulto non lo comprende, vuol dire che non ha la capacità di educare
i propri figli e, forse, sono i figli che dovrebbero educarlo alla vita e ai sentimenti.
La separazione e la fine di una relazione è sempre un fallimento, da qualsiasi punto si
analizzi, e in presenza di figli lo è ancora di più. Perché non ammetterlo? Non è facile da
comprendere perché spesso nelle successive relazioni e unioni si va sempre alla ricerca di un
“sosia” del partner lasciato, con le stesse caratteristiche psichiche e somatiche, con la stessa
superficialità e genitorialità. Tutto ciò vuol dire che qualcosa non funziona e, forse, proprio in noi stessi, anche se ci ostiniamo a negarlo.
Come uscirne?
C’è un mistero dentro l’uomo, dentro la sua grandezza e soprattutto dentro la sua miseria. Un
senso del limite che riaffiora anche da comportamenti che sembrerebbe impossibile vedere
applicati poiché sono solo distruttivi, distruttivi anche per colui che li attiva e che distrugge. Basterebbe, insomma, poco per vivere con il sorriso sulle labbra invece che con un ghigno che
vuole spaventare chi si avvicina troppo a noi e così invitarlo a non fermarsi. La famiglia da luogo dei sentimenti si trasforma invece nello spazio della lotta e del rancore. Là dove c’è dolore riesco a vedere la possibilità di sostituirlo con la gioia che certo non è la felicità, intesa come piacere o come ubriachezza dei sensi, ma il vissuto di chi non dimentica che
attorno c’è chi ha bisogno e spera in te, chi ha voglia di condividere la tua serenità. I bambini potrebbero vivere meglio, frenando la corsa che fa persino della fanciullezza un periodo dell’esistenza di malanno, di criminalità e di violenza. (Vittorino Andreoli, Alfabeto delle
relazioni)
*docente di filosofia e socio-pedagogista

 

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