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Una madre d’oltralpe penalizzata dai tribunali liguri per aver difeso la propria figlia


In nome della Legge!

Ma siamo proprio certi?


Una francese di buona famiglia frequenta un italiano della riviera ligure e rimane incinta ma il fidanzato le impone di abortire per la seconda volta. Lei si rifiuta e la sua vita diviene un inferno: violenze e minacce di ogni genere per indurla ad interrompere la maternità e per costringerla a recarsi in Inghilterra poiché, a dire dell’uomo, tale pratica si effettuava fino al quinto mese. L’uomo, di origine meridionale e con una parentela agli onori della cronaca “per prodigi religiosi” e per attività malavitosa in una città chiacchierata per quest’ultime inquietanti e devianti presenze, non accettava il rifiuto della donna, ritenuto, per ancestrale retaggio culturale, come un oltraggio al maschio dominante.

La signora, in attesa della nascita della bambina, per sottrarsi alle angherie dell’ex fidanzato e dei suoi “inviati”, su consiglio del medico di famiglia, dovette abbandonare la ridente cittadina francese della Costa Azzurra e rifugiarsi presso i propri genitori che vivevano ad ottocento km. di distanza. Una volta partorita e riconosciuta la figlia, fece avvisare il padre dell’evento, il quale, dopo alcuni giorni si recò in ospedale, insultò la madre, non chiese di vedere la figlia e, il giorno dopo, la riconobbe in ritardo. Aspettò le dimissioni dall’ospedale di madre e figlia, con sospetti problemi fisici, e fece subito rientro in Italia.

La bambina, dopo alcune settimane fu nuovamente ricoverata in ospedale e il padre, informato, si rifece vivo in Francia, proponendo alla madre di iniziare una convivenza assieme alla figlia in un appartamento da lui preso in affitto, vicino alla sua vecchia madre, la quale dopo decenni di residenza in Liguria, ancora parla quasi esclusivamente in dialetto meridionale.

La signora, dopo un periodo di riflessione e dopo essersi consultata con i propri genitori e familiari, acconsentì a trasferirsi in Italia, dove si inventò un proprio lavoro artigianale per pagarsi il mutuo del locale (acquistato da lei, ma intestato, però, a nome del compagno), l’affitto dell’abitazione familiare e per mandare avanti la casa poiché il compagno sosteneva che con i suoi introiti avrebbe costruito una casa tutta per loro!

L’uomo, approfittando che la sua compagna non parlava e comprendeva la lingua italiana, fece modificare, all’insaputa della madre, il cognome della figlia facendo anteporre il proprio cognome a quello della madre, avendola riconosciuta ancor prima della nascita, come prevede la legge francese, mentre il padre lo fece dopo i tempi previsti.

Quasi da subito iniziarono le difficoltà poiché il compagno volle ritornare a stare con la propria madre, la quale considerava la signora – perché straniera e per di più francese – incapace a gestire la nipote e la riteneva responsabile di averle sottratto con inganno l’adorato figlio (l’unico maschio e il più piccolo) amante della bella vita, della palestra e delle escursioni in moto e in bici. La madre della bimba quando rientrava dal lavoro non era libera nemmeno di prendere in braccio la propria figlia perché, nell’indifferenza del padre, la “suocera” glielo impediva.

 

Dopo insistenza della signora, la coppia andò a vivere da sola. Il “compagno”, rientrando da una delle sue abituali escursioni vacanziere, disse alla madre di sua figlia che dal giorno successivo doveva ritornare in Francia senza la figlia poiché aveva riconsegnato l’appartamento e, lui con la bambina, sarebbe ritornato ad abitare con la propria madre. La compagna gli fece presente l’opportunità di parlarne e gli disse che, comunque, non avrebbe lasciato la figlia ad un padre che in questi due anni di convivenza se ne era sempre disinteressato, delegandone la cura, quando la signora era al lavoro, alla vecchia madre e alle sue invadenti sorelle.

 

Per meglio riflettere sul da farsi, propose al compagno e al suo influente clan familiare – che accettò – di andarsene con la figlia due settimane in ferie presso i suoi genitori in Francia, come da tempo previsto, e al suo rientro avrebbero risolto la questione e la signora avrebbe provveduto alla chiusura dell’attività commerciale e della relativa contabilità fiscale.

Appena partita per le ferie però, l’uomo la denunciò immediatamente in Italia e in Francia con l’accusa di aver abbandonato la casa familiare e di aver sottratto (rapito) la figlia per portarla in uno stato africano. Nei giorni successivi, inoltre, il padre insisteva sulla sottrazione della figlia – di una settimana, neanche - e dei danni psicologici che tale gesto aveva provocato nella minore di oltre due anni, di non sapere dove si trovasse e di non aver avuto alcun contatto telefonico con madre e figlia.

Alla vigilia di Ferragosto, si tenne il processo presso il tribunale francese dove momentaneamente si trovavano madre e figlia presso i nonni, al quale il padre arrivò assieme al cognato, esponente di polizia, che confermò le accuse. La madre cercò di dimostrare che la denuncia nascondeva ben precisi e diversi intenti e che il padre, durante la di lei permanenza in ferie presso i propri genitori, che non rivedeva da due anni, aveva parlato al telefono anche più volte al giorno con la compagna e la figlia ed a riprova delle sue affermazioni presentò i tabulati telefonici che rimasero nel cassetto del giudice. Era sempre restata nel paese dei suoi genitori.

La figlia di due anni e mezzo, poiché residente in Italia, pur avendo la doppia cittadinanza, essendo nata in Francia da madre francese, venne inspiegabilmente tolta alla madre per essere affidata al padre in Italia, regolandone il diritto di visita del genitore non collocatario.

E’ stato un vero calvario poiché la bambina non voleva stare con il padre e questi, supportato dal suo clan familiare, farà di tutto per estromettere la madre dalla vita della figlia, ricorrendo alla calunnia più sfacciata e per “punire” la madre che non aveva eseguito il suo imperativo di abortire. La sua azione non era mossa da amore verso la figlia ma era solo un modo per vendicarsi della ex-compagna e farla allevare ad una sua sorella che sperava, una volta allontanata la madre, di poterla adottare o vedersela affidare, avendo solo figli maschi.

La bambina ben presto incominciò a raccontare a tante persone di inquietanti attenzioni del padre, durante la doccia, e che la costringeva a vedere con lui, nel lettone, film pornografici di cui raccontava raccapriccianti particolari. La madre – che aveva iniziato la pratica di affido della figlia al tribunale minorile ligure – pur avendo allertato i servizi sociali francesi, preferì raccontare tutto al giudice piuttosto che denunciare il padre per non inasprire i già difficili rapporti. Il tribunale minorile, invece di indagare in modo approfondito sui fatti riferiti dalla madre, preferì perseguitare proprio lei, togliendole il diritto di visita ed obbligandola ad incontri protetti con la figlia, sottoponendo la minore a psicoterapia. Solo dopo i duri interventi di una assistente sociale, il tribunale riconcesse gli incontri liberi.

Il padre accusava la madre di essere una pazza e pericolosa per la figlia e tutti fecero proprie queste accuse. Inoltre, dopo essere stato indebitamente ed immediatamente informato dai servizi sociali francesi, il padre, a sua difesa, denunciò la madre degli stessi abusi sessuali.

Nel 2011, la bambina (di otto anni!) ricominciò a raccontare nuovamente dei palpeggiamenti del padre durante la doccia con dovizia di particolari e riferiva che era costretta a dormire sul letto del padre e che lo stesso le imponeva di guardare film pornografici.

La madre - sollecitata dalle amiche che erano presenti quando la figlia faceva questi racconti e dalla psicologa forense francese, a cui la madre si era rivolta, su consiglio del pediatra, per esprimere una sua valutazione sugli inquietanti episodi e a seguito dell’intervento della Questura di Imperia, allertata da Telefono azzurro, presentò una denuncia contro il padre di sua figlia al fine di far aprire indagini giudiziarie per l’accertamento della verità. Un atto dovuto e non altro.

Il Tribunale dei minori di Genova tolse immediatamente il diritto di visita alla madre, delegando i servizi sociali del paese di residenza della minore di predisporre incontri protetti in presenza di una educatrice tra figlia e madre e, all’interno dei quali, si doveva parlare solo in italiano, anche se la madre aveva difficoltà a farlo e la bambina parlava correttamente la lingua francese, e l’educatrice doveva conoscere la lingua francese. Solo dopo quattro mesi incominciarono gli incontri protetti per 90 minuti ogni due settimane.

L’incidente probatorio per appurare la verità verrà fatto solo dopo circa due anni e la bambina, lasciata inspiegabilmente presso il padre, nonostante la gravità della denuncia e contrariamente a quanto predispongono, in simili circostanze, tutti i tribunali italiani. La madre, per l’accertamento della verità, chiedeva che la figlia fosse stata data momentaneamente in affido ad una famiglia per evitare che i genitori la potessero influenzare. Ma così non è avvenuto!

La bambina, terrorizzata e che non vedeva da sei mesi la madre per decisione dei servizi sociali, non solo non parlò dei fatti oggetto dell’indagine ma disse che mai ne avrebbe parlato perché temeva, come la famiglia paterna la ossessionava continuamente, di essere messa in un istituto, di non poter più vedere la madre e che il padre fosse stato messo in galera.

La denuncia della madre viene archiviata, nonostante la ferma opposizione della madre che chiedeva di approfondire le indagini, sentendo direttamente i testimoni citati dalla madre e la psicologa francese che aveva incontrato da sola la bambina per ben tre volte e che aveva segnalato quanto dalla stessa raccontato alla Procura della Repubblica di Nizza che, per competenza territoriale, aveva trasmesso il tutto a quella di Imperia. Chiedeva, inoltre, il rinvio a giudizio del padre proprio per approfondire, attraverso il contraddittorio, le testimonianze di tutti coloro che conoscevano bene il caso e verificare la veridicità dei fatti.

La CTU, nominata dal Gip per appurare se la bambina era stata sincera nell’incidente probatorio, nella relazione per 16 volte ha ripetuto che la figlia non parlava e mai parlerà dei fatti inquisiti perché intimorita e perché lasciata nella casa del padre inquisito. La bambina soffre della mancanza della madre e la professionista non risparmia pesanti critiche all’operato dei tribunali coinvolti.

La verità non si saprà mai. Non ci saranno gli ulteriori dovuti accertamenti visto che la figlia non ha parlato e mai parlerà. La ragazzina di dodici anni è stata indotta a rifiutare la madre e il padre canta vittoria. Ma vittoria di chi? Della Giustizia? Così è stato deciso dal GIP di Imperia. In nome della Legge! Ma ne siamo proprio certi? (I parte – continua)

 

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