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Le contraddizioni del sistema


La mediazione familiare:

quando e come è praticabile


Ubaldo Valentini

La mediazione familiare non è un toccasana per superare le divergenze tra i genitori sulla gestione dei figli dopo la fine della convivenza. Chi la effettua, soprattutto, non sono sempre professionalmente (con titoli scientifici e non con attestati di corsi “fai da te” di alcune ore predisposti e gestiti dall’ente di appartenenza) all’altezza del delicato compito a cui sono chiamati i mediatori, dipendenti delle strutture psico-sanitarie delle Asl o loro convenzionati che operano senza uno specifico Regolamento e, purtroppo, senza il dovuto monitoraggio e controllo – dovuto per legge - dell’ente pubblico e tantomeno dei tribunali.

La logica dei tribunali e dei servizi sociali tiene conto quasi esclusivamente delle esigenze degli adulti (genitori) e trascura i disagi e il malessere subiti dai minori quando non accettano la famiglia allargata o quando non accettano di limitare la loro presenza con il genitore (quasi sempre il padre) non collocatario. La parte debole, nella coppia con figli, sono i minori che nulla hanno a che vedere con le “leggerezze” e, spesso, con l’”immaturità” dei genitori. Sono i genitori che devono adeguarsi alle loro aspettative e non viceversa perché i minori sono persone e come tali vanno integralmente rispettati indipendentemente dall’età ricordandosi che non sono stati loro a chiedere di venire al mondo. L’arroganza dei genitori che non vogliono rinunciare alle “loro” esigenze e prerogative di rifarsi una vita deve essere fermata dal tribunale, predisponendo indagini psicologiche effettuate da professionisti specifici attraverso specifica Ctu.

Le esigenze degli adulti e le loro ripicche, pertanto, non possono essere “imposte” ai figli minori, le cui esigenze vanno tenute presenti e protette dal tribunale e dai servizi sociali a cui spetta imporre ai genitori i tempi di crescita e di accettazione delle nuove situazioni familiari dei minori senza ricorrere a frequenti ”forzature” dei “tecnici” della psiche, o altri, siano essi liberi professionisti facenti parti di strutture pubbliche.

Il tribunale di Ravenna, dinnanzi al rifiuto dei figli minori ad accettare la presenza della nuova compagna del padre, si è preoccupato di far accettare ai figli – e in fretta – la sua nuova situazione familiare imposta senza il loro assenso (n.1847/2020).

E’ dovere del tribunale sentire direttamente i minori (e solo in casi eccezionali tramite terzi) prima di trarre conclusioni preconcette e rinviare il problema alla mediazione familiare che parla con gli adulti (in conflitto tra loro e pertanto è supponibile che la loro versione possa non essere autentica) e solo dopo incontra i minori spesso senza le dovute competenze professionali di psichiatria infantile e/o psicologia dell’età evolutiva e senza un ctp.

La mediazione familiare – anche quando condotta con professionalità – non può sostituirsi ai genitori che non collaborano tra loro e ai loro figli che ancora non hanno rielaborato la fine della relazione dei genitori. Forzare i tempi dei figli, ancora piccoli, vorrebbe dire provocare in loro danni esistenziali i cui effetti ben presto emergeranno.

 

E’ notorio che i pubblici centri di mediazione familiare sono una emanazione dell’ente locale e dei partiti di riferimento e le nomine dei componenti troppo spesso tengono conto prevalentemente dei risvolti politico-clientelari e non professionali, come sarebbe dovuto.

In Valle d’Aosta, la responsabilità del servizio, oltre a non essere affidato ad una psicologa con laurea magistrale (5 anni) è anche una attivista politica sia al comune di Aosta che alla Regione, da cui dipende la mediazione familiare, e, spesso, durante le sedute affronta tematiche che nulla hanno a che vedere con la mediazione familiare. L’Asl e la Regione ne sono a conoscenza come conoscono le lamentele dei separati che ne contestano l’operato per le conseguenze negative degli accordi dalla stessa proposti (o imposti con velate asserzioni sul non accoglimento) e chiaramente sfavorevoli al padre. I giudici dovrebbero controllare i termini dell’accordo, mentre invece si limitano a “omologare” quanto la mediatrice, spesso, fa sottoscrive ai coniugi - quasi sempre disinformati sui loro diritti e di quelli dei figli - accordi che, guarda caso, sono quasi sempre identici da anni.

Mancano, in quasi tutta Italia, seri e specifici controlli sull’operato dei mediatori familiari e il tutto è lasciato alla loro discrezionalità. Le giuste lamentele dei genitori e dei loro legali sul mal funzionamento della mediazione familiare e sui danni che provoca vengono ignorate da chi dovrebbe controllare, come prevede la legge sulla pubblica amministrazione, l’operato dei dipendenti pubblici.

La mediazione familiare, inoltre, dovrebbe progettare con i genitori, oltre alle finalità dell’intervento, modalità e tempi di attuazione, - ma non lo fa lasciando, così, di fatto una ampia e incontrollata discrezionalità agli operatori stessi e non permettendo il contraddittorio con il genitore dissenziente.

Non è affatto vero che la mediazione familiare “suggerita” dal tribunale (ma di fatto pretesa contra legem) senza verificarne la vera competenza degli operatori, cioè professionalità ed imparzialità, sia la soluzione migliore per rimuovere il rifiuto dei minori ad accettare la famiglia allargata o il disagio a seguito dei provvedimenti del tribunale che impongono la riduzione, per loro incomprensibile, della presenza di un genitore, quasi sempre il padre. Il tribunale deve applicare la legge e decidere senza divagare con espedienti di dubbia efficienza per scaricarsi le proprie responsabilità nel decidendum.

Il suggerimento del tribunale ai genitori litiganti di rivolgersi alla mediazione familiare spesso non è altro che demandare ad altri decisioni che, invece, sono di stretta pertinenza del giudice o del collegio giudicante.

Il parere dell’esperto

avv. Gerardo Spira

La mediazione familiare è l'ultimo istituto del percorso fallimentare dell'intervento dello Stato. Due persone si separano. Il caso passa nelle mani di avvocatura e tribunali. Questi invece di disporre per un accordo disciplinato di doveri e diritti, mettono insieme impegni generici e vaghi, non garantiti. I provvedimenti, così disposti, aprono la strada si conflitti.

I conflitti sono affidati ai servizi pubblici, gestiti da figure incapaci, impreparate e, spesso, esse stesse vittime di fallimenti familiari. Si apre, a questo punto, una prima confusione di ruoli e di competenze.

Il tribunale, invece di rimuovere disagi ed ostacoli burocratici, affida il caso ad un mediatore. Questi, privo di una linea legiferata, cerca di farsi spazio tra i tanti “galli” mettendo in piedi una cosa che non ha alcun valore legale. Il tribunale, distratto da altri affari giudiziari, lascia il caso nella babele dei "chicchirichì". Quando il percorso del procedimento giunge alla fine per stanchezza di tutti, esce dal cilindro la decisione, qualsiasi, che non ci "azzecca” direbbe di Pietro, col caso.

Da noi si dice: il malcapitato, padre, finisce con le tasche vuote e il "culo rotto". Perché?

Perché la Giustizia è di genere femminile e nessuno solleva la questione di violazione dei principi costituzionali in ordine alla uguaglianza dei diritti e dei doveri. O si cambiano le leggi, oppure si sopprimono i tribunali e si pensa ad un'altra modello di famiglia. Tutti sono responsabili del disastro istituzionale di questa società e del futuro dei figli.

 

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