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Per un equo assegno di mantenimento dei figli


Fare accertamenti sul lavoro nero dei genitori


Ubaldo Valentini

La piaga sociale del lavoro nero colpisce anche i genitori non più conviventi e, soprattutto, quello obbligato a passare al collocatario l’assegno di mantenimento per i figli, calcolato secondo parametri che, come tutti sappiamo, non corrispondono a verità, anche a causa della discrezione non obiettiva dei magistrati, che si rifiutano di disporre accertamenti sulla non coerenza dei redditi dichiarati e/o in base alle contestazioni di parte. Il genitore che esercita il lavoro non dichiarato – e sono tantissimi, soprattutto fra le donne, per il 94% collocatarie dei figli - dispone di un reddito che, nella quantificazione del mantenimento dei figli da parte del giudice, non compare e falsifica l’ammontare dell’assegno imposto al genitore non collocatario.

E’ una vera e propria ingiustizia – si potrebbe chiamare anch’essa una piaga per i separati - che i tribunali non possono ignorare se vogliono garantire una equità tra i due genitori nel mantenere i propri figli. Una equità indispensabile se si vuole disinnescare la conflittualità genitoriale, che, in concreto, danneggia prevalentemente i figli e offende il genitore che è tenuto a versare un assegno di mantenimento non proporzionato ai redditi reali. Il genitore non collocatario, spesso, è ridotto in miseria, mentre l’altro non è tenuto a versare, contravvenendo, di fatto, l’art. 30 della Costituzione e le norme del codice civile, che prevedano la obbligatorietà del mantenimento dei figli per ambedue i genitori.

Il calcolo dell’assegno di mantenimento avviene in base alle dichiarazioni dei redditi degli ultimi tre anni, la cui presentazione è obbligatoria per ambedue i genitori, e in base al principio di proporzionalità e, quasi mai, nonostante le esplicite richieste-denunce del genitore non collocatario, il giudice dispone accertamenti “veri” sulle attività non dichiarate dai genitori. Nelle rare volte in cui vengono disposti, le istituzioni finanziarie preposte al concreto controllo svolgono i loro “accertamenti” davanti al computer, cioè ribadiscono le informazioni e/o i dati fiscali già in possesso del tribunale. Molti magistrati sorvolano sulla richiesta del non collocatario, quasi sempre il padre, pretendendo che lo stesso fornisca informazioni certe sul lavoro a nero dell’altro genitore per disporre un accertamento o, addirittura, non si esprimono sulle relative richieste – nemmeno nel corso del 2° grado di giudizio – dimenticando che lo stesso non ha tempo e capacità (neanche economiche) di svolgere attività investigative, proprie della Guardia di Finanza, della Polizia Tributaria, dell’Ispettorato del Lavoro e/o della Corte dei Conti, perché l’evasione fiscale è un reato e un danno erariale per la collettività.

La collocataria ha un trattamento di riguardo, forse come “risarcimento” per la collocazione prevalente dei figli oppure perché, ancora nei tribunali, domina una consolidata prevenzione, negativa, sulle capacità educative e formative del padre o, non ultimo, per una falsa ideologia di genere, che discrimina il genitore di sesso maschile.

Il giudice, nella determinazione dell’assegno di mantenimento, non solo disconosce il problema della veridicità e completezza delle dichiarazioni dei genitori, ma non considera i contributi che il collocatario percepisce per i figli da parte delle istituzioni pubbliche e private, la cui entità annuale, talvolta, è molto elevata e si avvicina al reddito dell’obbligato. Se il non collocatario chiede informazioni o formula istanze di accesso agli atti degli enti che elargiscono i contributi per i “suoi” figli su segnalazione dei servizi sociali, troppo spesso gli viene negato l’accesso – in questo caso, la condotta ostativa dell’ente integra il reato di rifiuto di atti d’uffici – perché i dati relativi ai suoi figli sono dati sensibili e coperti dalla privacy, anche per lui. Il giudice, ovviamente, quasi mai accoglie la richiesta diretta del tribunale agli enti erogatori e tali somme non rientrano nel principio della proporzionalità.

tratto da riminitoday.itMolti collocatari pretendono di avere per loro l’intero assegno unico per i figli, come avveniva -ingiustamente- con gli ANF, non tenendo conto che l’obbligato non percepisce più le detrazioni dalle imposte per figli a carico e il suo reddito mensile, dal 1 marzo, è sensibilmente diminuito, mentre quello del collocatario non subisce riduzioni, perché, molto spesso, lavora in nero. La casa coniugale o familiare, assegnata al genitore collocatario, di fatto, non rientra nel calcolo dell’assegno di mantenimento, riducendolo quando è di proprietà dell’altro genitore.

Questa situazione è insostenibile per le troppe inadempienze istituzionali e per la “persecuzione” contro il genitore estromesso dalla vita dei propri figli, continuamente umiliato anche dinnanzi a loro e impotente a far valere i diritti propri e dei propri figli per mancanza di disponibilità economica, mentre il collocatario beneficia spesso del c.d. patrocinio gratuito, anche per i procedimenti penali incardinati a seguito delle false denunce e/o querele.

L’affido condiviso paritario con il mantenimento diretto dei figli, cioè senza assegno di mantenimento e senza assegnazione della casa coniugale/familiare ad un genitore, in parte risolverebbe queste diffuse ingiustizie ed eliminerebbe tanta conflittualità genitoriale, e, al contrario, garantirebbe la bigenitorialità e cogenitorialità.

Purché non si ricorra ad un “falso” principio di proporzionalità, non convalidato da un approfondito ed oggettivo accertamento fiscale su ambedue i genitori.

 

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