PDF Stampa E-mail

La Giustizia Ingiusta dei tribunali perugini


“Hai 70 anni, sei vecchio e non puoi pretendere nulla,

anzi devi anche pagare le spese legali all’ex -moglie”


Oltre all’assurda conclusione dei giudici umbri, alcuni dei quali, forse, anche più vecchi di questo padre, c’è la beffa di vedersi rigettate le sue lecite richiestee di esserecondannato a pagare l’avvocato di controparte in appello per i 4/5 (€ 3.400, oltre accessori, cioè €. 4.961.01). Poiché la sentenza, per altro, è viziata da un errore materiale, perché il Collegio della Corte d’Appello, erroneamente, non ha considerato che la moglie era stata ammessa al cd. gratuito patrocinio e, quindi, il marito dovrà pagare le casse dello Stato: chissà, quindi, se il Collegio stesso si sarà sbagliato, anche se nell’ambito della propria discrezione, quando ha determinato la cifra che il signore dovrà pagare.Il marito,ritenuto “vecchio”dai giudici del tribunalee Corte d’Appello - che, certamente, non si calpestano i piedi -lavoraregolarmente e la sua prestazione artistica viene non solo continuamente richiesta da tantissime persone ma continua a condividere con l’ex-moglie (per altro, sua socia e con la quale è sempre rimasto in ottimi rapporti); è un ambientalista della prima ora e vive in una casa propria in un villaggio ecologico nelle colline umbre,dove le strade non sono asfaltate per scelta degli oltre quaranta residenti, fra i quali numerosi professionisti.

Per i giudici, però, tutto ciò non conta come non conta il sentimento e le esigenze di una bambina, intelligentissima, che ha compiuto sette anni e che adora suo padre, della cui nascita il genitore era stato tenuto all’oscuro per volontà della moglie e di chi per lei e che ha potuto vedere per la prima volta in un’aula di tribunale quando aveva un anno.Anche questo per i giudici non conta.

Ma andiamo per fila.

 

Un padre ha una figlia di sette anni e, nonostante abbia l’affido congiunto, non può chiedere modifiche alla separazione (o, meglio, ai provvedimenti provvisori ed immediati nonché ai relativi decreti di modifica, emessi in corso di causa) per tenerla più tempo, come la minore continuamente lo supplica, essendo collocata – prevalentemente - presso la madre (nulla facente e in continua ricerca di nuova abitazione), perché, a settanta anni, secondo i giudici perugini di primo grado e della corte d’appello,è vecchio e, inoltre, essendo la moglie marocchina e molto più giovane di lui,potrebbe essere anche razzista, come velatamente e senza prova alcuna si fa intendere.

Non solo, viene condannato a risarcire pesantemente le spese legali di controparte e viene ignorato il fatto che le accuse di violenza familiare erano state sconfessate dalle forze dell’ordine da lei chiamate, le quali, nelle relazioni a seguito dell’intervento,affermavano chiaramente che la donna non evidenziava alcun stato di agitazione e di spavento e non aveva alcun segno della dichiarata aggressione del marito, cioè mentiva. Tutto ciò, per i giudici, non era importante per comprendere lo stato menzognero della signora, che, una volta ottenuta la cittadinanza italiana, voleva liberarsi dal padre della figlia (che non voleva, ricorrendo per ben due volte all’aborto) perché dopo la separazione aveva deciso di trasferirsi nel nord Europa.

Il marito, appassionato di viaggi, spesso si recava d’estate in villeggiatura in Marocco e, durante una di queste vacanze,conobbe una cameriera dell’albergo, madre di una bambina e dalla loro frequentazione è nato il progetto matrimoniale (cerimonia in Marocco con rito islamico e, poi, immediato trasferimento in Italia), che avrebbe dovuto comprendere, secondo il suo desiderio, anche il trasferimento della prima figlia, contrastato, invece, dalla moglie, che voleva essere libera e l’ha lasciata(o, meglio, abbandonata) ai suoi genitori, andandola a trovare, in questi otto anni, una sola volta.

Come si può ipotizzare che questo uomo sia razzista se era solo lui ad interessarsi dell’altra figlia, inviandole regali in continuo?

Dopo alcuni mesi di permanenza in Italia, la signora resta incinta e incomincia ad intensificare il suo rifiuto,oltre che della gravidanza, anchedel marito e della sua casa con continue aggressioni verbali. Il marito risponde alle accuse verbali della moglie, ma sempre nel limite della liceità e, un bel giorno, a quattro mesi dall’inizio della gravidanza e non potendo più abortire, ha lasciato la casa coniugale su consiglio dei servizi sociali di Assisi e degli astiosi centri antiviolenza della zona, che le hanno trovato una casa protetta ad Orvieto, come si scoprirà dopo molti mesi dalla nascita della bambina, ben pagata, ovviamente, dal comune di residenza.

Non risponde più al telefono e il marito non riesce ad avere informazioni su dove si trovasse, sul suo stato di salute,  sulla gravidanza e sul sesso del nascituro. La figlia nasce e nessuno ne dà comunicazione al padre, il quale si trova ad essere padre di una bambina che porta il suo cognome a sua insaputa. Intanto, la signora lo aveva denunciato - come prassi consigliata o imposta dai centri antiviolenza - e non gli permetteva di avere notizie sulla nascita e di poterla vedere. Il padre si è trovato costretto a chiedere la separazione e, durante una udienza, la legale della signora le fa vedere la figlia, di circa un anno, e ne ha notizie certe solo dopo un anno e mezzo dal concepimento!

La signora ritira le denunce non per spirito conciliativo e per mantenere una certa serenitàtra i genitori, ma solo perché teme l’esito del processo alla luce delle relazioni, più di una, delle Forze dell’ordine. I servizi sociali, in questa vicenda, hanno dimostrato la loro incompetenza professionale e il discriminante atteggiamento verso il padre, poiché è sempre stato tenuto all’oscuro su ciò che riguarda la figlia e su ciò che riguardail loro trasferimento in una comunità per minori nel comune di Assisi, gestita da ecclesiastici di fuori regione. Questa comunità sarà condannata anche a risarcire la figlia e il padre per l’utilizzo improprio sul loro sito web delle immagini della minore. La moglie svolge attività prevalentemente a nero, procurategli, forse, dalla comunità stessa e/o dal centro antiviolenza e/o dai servizi sociali, su cui sarebbe stato indispensabile indagare da parte della magistratura (sia civile che penale) e/o delle altre istituzioni competenti a controllare il relativo operato, come chiesto dal marito.

La signora resta ad abitare con la figlia ad Assisi e si rifiuta di andare a vivere in una abitazione più vicina alla casa o al laboratorio del marito e si rifiuta perfino di andare a prendere e riconsegnare la figlia a casa del padre, perché lei non vuol fare alcune centinaia di metri di una strada imbrecciata, da tutti i residenti utilizzata (alcuni dei quali, utilizzatori anche di auto di un certo valore ed il cui fondo è molto basso) e benchè le figlia non abbia relazioni e/o contatti con i coetanei che abitano nel comune di residenza della madre.

E’ un pretesto per alimentare il disagio sia nel padre che nella figlia e la moglie accusa il marito di non voler fare lui i viaggi (di alcune decine di km.), perché, a suo dire, è vecchio!Ivari magistrati che erano assegnatari delle varie fasi processuali, forse leggendo(almeno si spera) frettolosamente i documenti, hanno fatto proprie solo e tutte le richieste materne, arrivando ad offendere la dignità di questo padre, ritenuto troppo vecchio per fare il genitore,indipendentemente alle sue dimostrate capacità paterne, e condannandolo (forse, con l’intento di scoraggiarlo a presentare altri dovuti ricorsi) a pagare le pesanti spese legali di controparte, benchè il Pubblico Ministero, nel suo parere (in Corte d’Appello), concordava la necessità di ampliare il diritto di visita del padre durante l’estate ed affermava che la moglie e madre avesse una personalità paranoide.

Se di razzismo si può parlare, si deve far riferimento a quello subito dal padre per quanto scritto nelle sentenze con offese gratuite verso questo uomo, che, come tantissimi altri, ha la cultura, la forza e la capacità di fare a tempo pieno il padre, mentre la madre, quotidianamente, si dimentica di avere una figlia presso di lei collocata (e una dimenticata in Marocco) che,sovente, è tenuta da altre persone. I giudici della Corte d’Appello, durante la discussione, erano in altre faccende affaccendati (nonché con le palpebre calanti) e nemmeno ascoltavano la difesa diquesto padre.

Una giustizia ingiusta non serve a nessuno e tantomeno ai minori. Ben venga la obbligatorietà dei test psicologici (ma anche la responsabilità civile e penale dei giudici) a chi deve garantire imparzialità e una giustizia giusta, che, oggi, come i fatti confermano, troppo spesso (o quasi sempre?) non c’è. Purtroppo, questo eventuale provvedimento dei test psicologici d’ingresso in magistratura, almeno all’inizio, sarà applicato solo ai magistrati che entreranno in servizio in futuro, ma non anche a quelli che sono attualmente “in servizio”.

Che fine faranno, secondo questi solerti giudici perugini, i presidenti della Repubblica, i magistrati, i politici, gli amministratori e i funzionari che mandano avanti l’Italia avendo superato, e qualcuno anche alla grande, i settant’anni?

Ubaldo Valentini, (tel. 347.6504095 – genitoriseparati@libero.it)

 

NOTA! Questo sito utilizza i cookie e tecnologie simili. Se non si modificano le impostazioni del browser, l'utente accetta. Per saperne di più.

EU Cookie Directive Module Information