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Il 25 aprile nei tribunali umbri:

Liberiamoci dell’assurda Giustizia Ingiusta


Conta l’età per far valere i tuoi diritti genitoriali


I Genitori Separati si chiedono come si possa parlare della Festa della Liberazione quando fondamentali istituzioni dello Stato non liberano i cittadini dalla giustizia ingiusta, allontanando quei giudici che hanno trasformato la discrezionalità decisionale in discriminazione di genere contro genitori non prevalentemente collocatari (generalmente i padri). A Perugia, la giustizia ingiusta è una emergenza che i fatti, quotidianamente, evidenziano, alla luce di assurde sentenze come quella di vietare ad una bambina di sette anni di poter stare più tempo con il padre, che, a differenza della madre, le dedica affetto, tempo e competenza genitoriale, riuscendo ad interessarla alle tematiche sociali con metodi interattivi, idonei all’età e alle forti capacità intellettive della minore.

Per i giudici perugini del tribunale ordinario e della corte d’appello, un padre di settanta anni non può chiedere e pretendere nulla per sua figlia, perché, a quell’età, è vecchio ed, anzi, lo puniscono, condannandolo a pagare i 4/5 delle spese legali di controparte (€ 3.400, oltre accessori, cioè €. 4.961,01), liquidate con molta generosità nei confronti dello Stato, visto che la donna è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato ed è (quasi) nulla facente per professione, come dalla stessa dimostrato al tribunale.

(5.000 euro) alla controparte, ammessa al patrocinio a spese dello Stato. Non soddisfatti del probabile abuso di potere perpetrato ai danni di questo genitore, la cui moglie è magrebina, i due Collegi hanno prospettato, senza la pur minima prova, che la sua richiesta di modifica rientri in un atteggiamento culturale razzista. Che dire? Un tribunale serio non permetterebbe a tali giudici di sentenziare sui minori e sui loro genitori separati, perché fortemente lontani da una Giustizia giusta. Anche ciò contribuirebbe a festeggiare la Liberazione dalle ingiustizie.

Questo padre, noto artigiano e artista umbro, che, da sempre, gestisce assieme all’ex moglie (cioè, la prima moglie) un laboratorio di restauro e creativo, è tutt’ora ricercatissimo per la sua attività, fa il genitore con competenza e riesce a garantire alla figlia, che si affaccia all’adolescenza, un clima affettivo sereno e una proficua crescita umana e sociale, interessandola a tante iniziative culturali e sociali, che nemmeno una coppia normale fa per i propri figli. Questo padre, secondo i giudici perugini, dovrebbe vergognarsi di voler fare il padre di una figlia di sette anni, perché è fuori tempo, cioè vecchio, e la sua insistenza di modifiche della sentenza viene scambiata per persecuzione razzista nei confronti della moglie. E’ stato proprio lui a chiedere con insistenza alla moglie di non abbandonare la prima figlia in Marocco e di portarla in Italia per stare vicina alla madre e farla studiare. Era lui che mandava i soldi alla ragazzina, che, oggi, non vuole più parlare e vedere la madre, sentendosi abbandonata.

Vorremmo chiedere ai giudici perugini se anche questo è razzismo e su cosa si basino le loro considerazioni in sentenza.

Tutte le decisioni hanno un limite e non è più tollerabile che alcuni giudici umbri, con molta presunzione e mancanza di rispetto della legge, si permettano di fare gli psicologi “domestici”, senza alcuna competenza professionale, danneggiando in modo irreparabile i cittadini. Questi atteggiamenti fanno comprendere quanto sia urgente, per tutti i giudici, un imparziale esame psico-attitudinale per chi vuole fare il giudice.

Questo genitore ha conosciuto la madre della bambina in Marocco, dove lavorava nell’albergo in cui, ogni anno, si recava in vacanza, anche dopo la separazione consensuale dalla prima moglie. Col passare degli anni, la conoscenza si è trasformata, su insistenza della futura moglie, in un rapporto affettivo e progetto matrimoniale, con il trasferimento in Italia della moglie, la quale, però, non ha consentito al padre di poter portare con sé la di lei prima figlia, abbandonandola, di fatto, ai nonni materni.

Solo in seguito il marito ha compreso le ragioni del diniego della moglie, cioè voleva avere rapidamente la cittadinanza italiana per poi trasferirsi in altri stati, senza figli e, quando in Italia è rimasta incinta, voleva abortire. Il marito si è opposto e, una volta scaduto il termine utile per l’aborto, la moglie, con l’ausilio di una nota organizzazione femminista umbra, collegata ad uno specifico centro antiviolenza, il cui operato e il business economico sono ben noti e da noi denunciati con successo da anni, è stata ospitata (con una elevata retta pagata dall’ente locale di origine e, forse, anche dal Dipartimento Regionale delle pari Opportunità), all’insaputa del marito, in un loro centro ad Orvieto, dove ha partorito e il padre ha potuto vedere la propria figlia, solo dopo circa un anno, nell’aula di un tribunale perugino.

La moglie non rispondeva ai messaggi e alle email del marito, le forze dell’ordine erano mute, come pure i servizi sociali erano vaghi e misteriosi, e, quando l’Asl ha inviato il tesserino sanitario della neonata a casa, è venuto a conoscenza di tutto, cioè che la figlia era nata, portava il suo cognome ed ha saputo che era stato denunciato dalla signora per maltrattamenti in famiglia. Accuse che hanno dimostrato la loro inconsistenza e la loro strumentalizzazione da parte della signora e, forse, da parte di chi ha manipolato tutta la vicenda.

La madre si è trasferita ad Assisi presso una casa-famiglia gestita da un sacerdote piemontese, affiliata, forse, allo stesso Centro antiviolenza umbro, condannata dal tribunale di Perugia a risarcire economicamente la bambina e il padre per la pubblicazione sui social network della casa-famiglia delle foto della minore non autorizzate.

La madre, dapprima, ha cercato di mettere la bambina contro il padre, inducendola a rifiutarlo, e, poi, ha ripreso, forse, ben guidata, le vessazioni contro di lui con denunce strumentali e con opposizioni alle frequentazioni padre-figlia, prendendo a pretesto la distanza della residenza della madre (quasi nulla facente e stranamente legata e/o coperta dalla casa-famiglia) dalla casa paterna, che abita in un noto centro residenziale, ambientalmente protetto, nella collina umbra, dove le strade interne sono tutte solo imbrecciate per non danneggiare l’ambiente e con spazi-gioco per i bambini.

Oltre all’assurda conclusione dei giudici umbri, alcuni dei quali, forse, anche più vecchi di questo padre, c’è la beffa di vedersi rigettate le sue lecite richieste e di essere condannato a pagare le spese legali in appello. L’affido era stato confermato congiunto.

Ci chiediamo ma questi giudici dichiareranno decaduti dal proprio incarico anche tutti i vecchi ultrasettantenni (e molti dei quali anche oltre ottantenni) che gestiscono fondamentali istituzioni della  nostra Repubblica? Per coerenza dovrebbero farlo, ma la coerenza non può essere pretese.

Per i giudici, però, tutto ciò non conta, come non contano nemmeno il sentimento e le esigenze di una bambina, intelligentissima, che ha compiuto sette anni e che adora suo padre. Anche tutto ciò, per i giudici, non conta nulla.

Ubaldo Valentini, (tel. 347.6504095 – genitoriseparati@libero.it)

 

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