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Sull’operato del Centro antiviolenza di Terni

chiesti chiarimenti alla Giunta regionale

 

Il Consigliere regionale Sergio De Vincenzi con una interrogazione urgente alla Giunta regionale chiede “chiarimenti sui Centri antiviolenza operanti nel territorio regionale e chiede di conoscere gli intendimenti della Giunta regionale per garantire forme di controllo sul loro operato e sul loro funzionamento”.

Nella interpellanza si fa esplicito riferimento al Centro antiviolenza di Terni “Liberetutte” e alle strutture parallele dallo stesso gestite, partendo dalla triste vicenda di quel padre naturale falsamente denunciato dalla convivente extracomunitaria per maltrattamenti in famiglia contro di lei e contro il loro figlioletto di appena due anni, costretto a non vedere il figlio per tanto tempo.

La signora si allontana dalla casa familiare perché, a suo dire in presenza di una pattuglia, non voleva stare più in quella casa ed escludeva di aver subito maltrattamenti fisici. Aveva già concordato con una associazione di Orvieto la sua accoglienza nella casa famiglia “Libera…mente Donna” gestita dal Centro antiviolenza ternano. Il padre, per non disorientare il bambino, si era offerto di andarsene lui dalla sua casa, ma lei non accettò perché asseriva di sentirsi a rischio. La vera ragione era che voleva fare la sua vita e voleva un cospicuo assegno di mantenimento per il figlio.

Il padre verrà a sapere dove si trovava il suo figlio solo dopo cinque mesi, perché anche i servizi sociali si rifiutavano di dargli informazioni. Rivedrà il minore, con modalità protetta per 90 minuti alla settimana e dovendo percorrere oltre duecento chilometri ogni volta, solo dopo sette mesi in presenza di una educatrice, che vietava al padre di portare al figlio piccoli regali e lo ha ripreso energicamente perché gli aveva dato una caramella e perché, a suo dire, era un modo per corrompere il proprio figlio!!???!

Il giorno dopo il suo allontanamento, con una dichiarazione spontanea ai carabinieri del luogo, parlava di maltrattamenti verbali e fisici, di un compagno alcolizzato e drogato (fatti smentiti dall’intero paese e dai risultati del Sert) che costituiva un pericolo fisico per sé e per il figlio; dopo una quindicina di giorni presentava una pesante denuncia contro il padre di suo figlio chiamando a testimoniare le sue amiche.

 

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Case famiglia, comunità protette, famiglie affidatarie

Un business per tanti e senza nessun controllo

 

Dagli orfanotrofi alle case famiglia, agli istituti protetti e alle famiglie affidatarie il passaggio è stato breve e da un ruolo supplente di certe strutture di volontariato si è passati a strutture “razionalizzate” e finanziate con tanti soldi inserite in un piano di politiche sociali. Ciò ha comportato la reinvenzione del ruolo dei servizi sociali che da interventi assistenziali generici sono divenuti “gestori” delle problematiche sociali, soprattutto minorili e familiari. Tutto bene, si dirà. Ma non è stato così perchè si è costituita una casta che fa il bello e il brutto tempo nella gestione delle emergenze e, purtroppo, anche nel crearle anche laddove non esistono.

La politica va a nozze con questa istituzione della pubblica amministrazione che, assieme ai vari centri di genere e delle strutture legate alla tutela dei minori e della famiglia da essa “protetta”, porta consensi elettorali e - perché no? - anche tanti soldi nelle tasche di chi non ne ha diritto. Questo spiega perché i vari assessori regionali e comunali, come i responsabili delle istituzioni, si arrabbiano se si chiede loro chiarezza, trasparenza e controlli veri. Per loro tutto va bene a prescindere delle evidenti incongruenze. Questo modo di fare, però, alimenta solo i dubbi sulla loro opportunità di esistere così come funzionano attualmente.

E’ ormai inderogabile una gestione trasparente dei servizi che tanto costano alla collettività e che spesso sono dannosi anche a chi dovrebbero essere tutelati. Occorre, in primo luogo, vedere e sapere chi sono i “padroni” di tutte queste strutture, quali collegamenti possano esistere con i politici che amministrano la cosa pubblica e con i dipendenti della pubblica amministrazione e quali lobby di fatto gestiscono questa importante fetta dei servizi sociali.

Fatta chiarezza ed eleminato qualsiasi dubbio, l’amministratore pubblico non può eludere l’obbligo di mettere in campo un protocollo d’intesa per la gestione dei servizi sociali e delle varie strutture ad essi collegate, determinandone finalità, relative modalità attuative, tempi precisi e non discrezionali, oltre ai modi e tempi delle verifiche obbligatorie. Precisate le modalità di operare è possibile anche il monitoraggio della loro efficienza tramite una commissione valutativa, professionalmente competente ed esterna ai servizi sociali stessi e all’assessorato di riferimento.

Fare chiarezza vuol dire eliminare eventuali inefficienze e allontanare dal servizio persone ed interessi che nulla hanno a che vedere con il servizio da erogarsi.

 

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